Home

Il cantante di blus - Capitolo 2

II.

Il Salaria era un piccolo bar ristorante su via Salaria dove tutti i giovedì, ma spesso anche in altre occasioni, Michele e gli amici della Teorema si incontravano.

Il locale era di Mario, ottimo cuoco e, come amava definirsi, grande caffettiere. Veniva da Salerno, e caricava molto il suo accento campano per spacciare il suo caffè, ottimo per la verità, come un originale napoletano.

In una vetrina riscaldata facevano bella mostra le sue pietanze di punta. Crêpes imbottite di tagliolini al limone, lasagna, risotto ai porcini, spezzatino di maiale con peperoni, frittata di cipolle e ogni contorno di verdure crude e cotte che si possa immaginare.

Mario aveva gestito per oltre dieci anni lo snack-bar interno della Teorema, che Frattini due anni prima aveva fatto sostituire con più economiche macchinette da caffè automatiche.

Così aveva preso in gestione un bar chiuso da anni, il Salaria appunto, adottandone il nome per conservare l’antiquata insegna al neon e tenendo anche gran parte dei pezzi d’arredo vintage lasciati dai vecchi gestori. Tra questi spiccava un GoldSound Nav II, un bellissimo jukebox anni ’70 perfettamente funzionante, in cui i pezzi più recenti risalivano a oltre vent’anni prima.

Nonostante avesse fatto fortuna, Mario era ancora imbestialito con Frattini e non perdeva occasione per fulminarlo con qualcuna delle sue orribili battute di spirito.

Il senso dell’umorismo non era infatti il suo punto di forza, e i clienti del Salaria ne erano consapevoli. Spesso però era proprio l’assurdità delle sue uscite a generare una grande ilarità, assecondata non poco dalla birra che scorreva a fiumi.

Quella sera Michele era arrivato più tardi del solito, cogliendo nell’entrare solo l’ultima parte di una delle sue interminabili invettive dirette al presidente della Teorema, mutuata da una vecchia barzelletta su un presidente che doveva abbassarsi i pantaloni. Il fatto che alla sua sghemba conclusione, Mario raccogliesse applausi e schiamazzi vari, fece capire a Michele che aveva saltato almeno due giri.

«Ciao!» urlò Manuela quando lo vide, facendo girare tutti verso l’ingresso. Michele pensò che fosse una fortuna che il piccolo locale fosse in pratica riservato a loro il giovedì sera.

Seguì un coro di saluti e risposte, farcite dai larghi sorrisi e dagli occhi lucidi, che un sostenuto tasso alcolemico di solito accompagna.

Michele senza darlo a vedere cercò un posto lontano da Beatrice, che non aveva mai trovato troppo simpatica. Era l’unico problema del suo prossimo incarico. La struttura informatica che doveva ospitare il sistema di knowledge management, il KMS, avrebbe dovuto prepararla lei. E sarebbe stata dura lavorare con una persona così maniaca dell’efficienza, tanto influenzata dalle numerose esperienze di lavoro in Germania.

Beatrice, Bea per gli amici, brillante ingegnere informatico del gruppo, era una specie di commistione tra genio e attività. Parlava fluentemente inglese e tedesco, aveva realizzato da sola gran parte dei programmi che giravano nella Teorema, e molti di questi erano stati acquisiti dalla Treue. Il suo atteggiamento riservato le dava un’aria aristocratica, forse anche scostante che, per quanto fosse solo apparente, influiva sui rapporti con il resto del gruppo. Le riserve si scioglievano ogni volta che con poche parole risolveva questioni lunghe e controverse. In questi momenti, tutti si chiedevano «ma come fa?» o anche «non potevamo chiedere a lei, prima?».

«Brindiamo al KMG, il Knowledge Management Group» disse Luca alzando un boccale semivuoto che probabilmente era il terzo della serata.

Michele odiava gli acronimi. A suo parere servivano spesso a dare decoro a entità altrimenti misere. Quella sigla, che gli evocava sinistre memorie di servizi segreti, o un marchio di pentole in vendita porta a porta, in fondo era utile solo a coprire di dignità un lavoro che serviva all’azienda quanto uno slittino da neve a un giamaicano.

Non disse nulla e alzò il bicchiere mentre Luca nel coro dei prosit, rovesciò qualche goccia sulla gonna della compagna della serata, di cui tutti avevano già dimenticato il nome: sapevano che non sarebbe stata lì il giovedì successivo.

Luca era infatti molto dinamico nelle sue amicizie femminili nonostante, o forse grazie, ai suoi cinquantadue anni ben portati. Era certo d’aiuto ai suoi effimeri menage, lo status di musicista tornato single da qualche anno. Era un ottimo sassofonista jazz, mai passato al professionismo a causa della sua monumentale pigrizia. Si mostrava attivo solo per ottenere i favori dei bocconcini, come le invidiose rivali si definivano a vicenda, spesso provenienti dall’ambiente dei locali notturni, dove di tanto in tanto si esibiva.

«Allora si comincia tra due settimane?» chiese Manuela, rivolgendosi un po’ a tutti ma guardando Bea, che avrebbe dato il via una volta pronta l’infrastruttura.

«In realtà spero che si riesca a farcela in una settimana o poco più» rispose Bea insolitamente allegra.

Michele fece una smorfia. «Che cazzo,» pensò «questa è davvero efficienza tedesca!».

Luca si alzò andò al GoldSound per mettere su un po’ di musica. Prese una manciata di vecchie monete da cento lire che Mario teneva appositamente in un cesto sul bancone del bar, e selezionò alcuni pezzi a caso.

La serata stava scaldandosi e anche Mario si unì al gruppo, che aveva ormai abbandonato l’argomento lavoro. «Silenzio!» ordinò d’improvviso «questo pezzo del mio compaesano va ascoltato senza disturbi!».

E te sento quanno scinne 'e scale/ 'e corza senza guarda'/ e te veco tutt'e juorne/ ca ridenno vaje a fatica'/ ma mo nun ride cchiù.

«Quattro minuti e trentacinque secondi di pura poesia» sentenziò Mario «come ogni pezzo creato dal maestro».

Il KMG si disse d’accordo con Mario ma Luca lanciò quella che prometteva di essere una bomba.

«Grande sì, certo, ma negli ultimi vent’anni non ha praticamente fatto più musica o testi passabili» disse con aria competente, suscitando, certo di proposito, l’ira divertita di Mario, che gli lanciò quanto aveva di lanciabile a portata di mano, urlando «sacrilegiooo!!».

Altri si unirono alla voce di Luca, finché Michele, ormai scaldato dall’atmosfera e dalla birra, non attirò l’attenzione battendo una posata sul suo secondo boccale vuoto «Pino Daniele è morto verso la metà degli anni ottanta! Un sosia fa del suo meglio per imitarlo da allora…».

Giorgio e Manuela intervennero soddisfatti «è quello che abbiamo sempre pensato anche noi!» dissero quasi in coro, e Giorgio aggiunse «dopo Musicante, nel 1984, il vuoto».

«Ue guagliu’!! io vi caccio fuori! Nel mio locale non si dicono ‘ste eresie, va bene?». Mario stava quasi per diventare serio. Diceva sempre che la sua adolescenza era stata decisa dalle canzoni di Pino Daniele. E se era il suo eroe, non poteva sbagliare.

Si lanciò in una difesa disperata «e allora ferryboat, Anna verrà? E quando? e tutte le altre colonne sonore dei film di Troisi? e lazzari felici?

«Lazzari felici sta in Musicante» corresse Giorgio sempre oscenamente preciso.

«È lo stesso!» replicò Mario con molta più foga che coerenza.

Qualcuno dei pochi clienti rimasti si unì timidamente alle proteste di Mario, finché i 4 minuti e 35 secondi scorsero e il GoldSound fece partire un altro disco.

All'ombra dell'ultimo sole/ s'era assopito un pescatore/ e aveva un solco lungo il viso/ come una specie di sorriso.

Il pescatore di Fabrizio de André, com’era prevedibile, mise tutti a tacere.

«Forse quando si ascolta la produzione di un artista in un certo periodo della vita, gli si dà un ruolo, una funzione» disse Bea quando la musica si fermò «Quando cresciamo siamo noi a cambiare, non l’artista. Non riusciamo a rinunciare alla musica cui ci siamo affezionati, ma la nuova produzione non ci soddisfa più». Poi sorrise e aggiunse «magari Mario non è ancora cresciuto».

Parlava quasi sottovoce nel silenzio degli altri, tanto che si sentiva il braccio meccanico del jukebox in sottofondo che trafficava per cambiare il disco.

Tutti si guardarono come per domandarsi «ma come ci riesce?».