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Il cantante di blus - Capitolo 27

XXVII.

Tu dimmi quando, quando/ dove sono i tuoi occhi e la tua bocca/ forse in Africa che importa. / Tu dimmi quando, quando/ dove sono le tue mani ed il tuo naso/ verso un giorno disperato / ma io ho sete/ ho sete ancora.

Il concerto si era aperto così, come d’improvviso, dopo quasi un’ora dal momento in cui erano entrati. E Michele dovette ammettere che, ad ascoltare questo pezzo, la sua teoria sulla morte di Pino Daniele vacillava come un castello di carte tra gli spifferi. Forse Mario non aveva tutti i torti.

Marcella aveva chiamato Michele mercoledì, dicendogli che Pino sarebbe stato a Roma proprio quel sabato in un concerto che aveva già fatto il tutto esaurito. Ovviamente lei aveva ottenuto due biglietti, e sarebbe stata felice di accompagnarlo. Dato che Michele pensava ancora che fosse una buona idea, l’aveva ringraziata di cuore e avevano preso accordi.

Così ora stava ad ascoltare e l’atmosfera di festa, la gente intorno sinceramente rapita, la voce e la musica che venivano dal palco, creavano una mistura coinvolgente che lo fece sentire un critico tronfio e pieno di boria per le sue opinioni sull’operato di questo artista.

Napule è mille culure/ Napule è mille paure/ Napule è ‘a voce de' creature/ che saglie chianu chianu e/ tu sai ca nun si sulo.

Man mano che la storia di Pino Daniele scorreva sul palco attraverso le sue canzoni, si convinceva che stava imbarcandosi in un’impresa più grande di lui, o che tutto era dettato dalla stessa fantasia distorta che l’aveva portato a scrivere Il cantante di blus.

L’atmosfera del concerto indoor, le suggestioni di pezzi come Nun me scuccià, Che male c’è, Amore senza fine, passando per Anima, Mareluna, poi ancora I Say I'sto cca', andavano via via cancellando il solco tra la vita e la morte di Pino Daniele, che avevano stabilito cadere nel 1984, rendendo ancor più ridicolo il proposito che Michele si era prefissato.

Comm'è triste, comm'è amaro/ Sta assetato a guardà' tutt'e ccose/ Tutt'è parole ca niente pònno fa'/ Si m'accido l’agg'jettato chellu ppoco 'e libertà/ Ca sta' terra, chesta gente 'nu juorno m'adda da'/ Terra mia terra mia/ comm'è bello a la penzà'/ Terra mia terra mia/ comm'è bello a la guardà

Il turbinio di suggestioni ed emozioni, che pure era durato due ore, finì come era iniziato, d’improvviso, quasi bruscamente.

Michele non si rese conto di essersi alzato, trascinato da Marcella che insisteva a fare in fretta per evitare che i musicisti andassero via.

«Ma il bis non lo fa?» chiese Michele ancora frastornato.

«Ma dormivi o eri sveglio? È uscito due volte!»

Arrivarono davanti all’ingresso camerini e passarono dietro una fila di persone che tentava, per poter entrare, di corrompere o imbonire i massicci componenti dello staff. Loro erano inflessibili. Sapevano che alla fine qualcuno sarebbe entrato, ma quell’atteggiamento avrebbe scoraggiato i meno determinati, filtrandoli, per selezione naturale, da chi si sarebbe conquistato il diritto a vedere la star.

Marcella, invece di fermarsi dietro la fila, la evitò e corse verso una porta d’emergenza che si trovava dall’altro lato del palco. Michele non disse nulla. Usando i maniglioni antipanico uscirono in un corridoio ampio, che sulla destra, a giudicare dalla luce che ne proveniva, sembrava portare all’uscita.

Marcella si avviò dall’altra parte, sempre di corsa, tenendo Michele per mano come un bambino.

Quando Michele lo vide venire loro incontro pensò che avrebbero fatto una figuraccia. Era un ragazzo enorme, forse più grasso che muscoloso, ma con una presenza comunque imponente e minacciosa. La scritta STAFF a caratteri cubitali campeggiava bianca sulla maglietta scura che indossava.

«Sei Marcella?» per poco non scoppiarono a ridere. La sua voce acuta, quasi lacerante, non sembrava naturale tanto strideva con il suo aspetto.

Marcella riuscì a mascherare la risata con il fiatone per la corsa e disse «sì, sono io».

«Venite con me» rispose e, per fortuna si girò, permettendo loro di sfogare, anche se in maniera sommessa, parte dell’ilarità accumulata.

Dopo un lungo giro si trovarono in una ampia sala su cui si aprivano quelle che sembravano essere le porte dei camerini.

Attorno a un tavolo di plastica, su cui erano messe alla rinfusa parecchie bottiglie di bibite varie, stavano raccolti alcuni membri del gruppo musicale con altre persone, probabilmente dell’organizzazione o dello staff.

Marcella si avviò da quella parte. Due di quelli la scorsero e le andarono incontro.

«Marce’, che piacere!» disse uno dei due.

«Ciao, James» rispose lei.

Michele si tenne in disparte mentre i due presero a presentare Marcella agli altri. Si sentiva terribilmente fuori posto.

Dall’altra parte della sala, verso le porte dei camerini, c’era un altro gruppo di una ventina di persone che si accalcavano intorno a un camerino. Michele si avviò incerto in quella direzione. Niente di male a salutare, si disse. E magari a far fare l’autografo a Mario.

I sopravvissuti alla selezione naturale operata all’esterno, avevano ottenuto il loro momento di attenzione e adesso stavano lentamente defluendo, con l’aiuto e la sollecitazione di due buttafuori. Pino era stanco e sudato, ma continuava a sorridere a tutti, stringere mani e firmare.

Michele arrivò dal lato opposto e cercò nelle tasche qualcosa che potesse servire come carta per l’autografo. Trovò uno scontrino del supermercato, per fortuna abbastanza ampio. Lo stiracchiò mentre si avvicinava.

Pino stava accarezzando una bimba di circa tre anni, che stava in braccio a una delle tre o quattro persone rimaste, quando vide Michele arrivare.

I loro sguardi si incrociarono e Pino smise di sorridere. Michele alzò la mano in cui teneva lo scontrino, ma il gesto rimase a metà. Pino, giustificato dal fatto che ormai l’efficace azione dei due buttafuori aveva sgombrato il campo, fece come il gesto di entrare nel camerino alle sue spalle. A Michele non sfuggì però, la premura con cui sembrava voler scappare da lui, e il sangue gli si gelò nelle vene.

Poi, come se si fosse convinto che era inevitabile incontrarlo, Pino si girò verso di lui con un’espressione rassegnata e appoggiò lentamente le spalle alla porta rimasta chiusa.

Uno dei due buttafuori, che aveva una faccia da mastino, si avvicinò a Michele, indicandogli l’uscita con un sorriso.

Vedendo che Michele restava immobile, il mastino stava per diventare più energico, ma poi vide come si guardavano lui e Pino e rimase perplesso.

Il primo a riscuotersi fu Pino che, ancora con una penna in mano probabilmente sottratta, come spesso accadeva, a uno dei fan, si mosse verso Michele prendendogli lo scontrino e sorridendo.

 «Come ti chiami?» chiese ripetendo meccanicamente la consueta formula.

«Sono, M…ario» rispose Michele, ricordando all’ultimo momento che si era ripromesso di portare l’autografo all’amico.

«Ecco qua» disse porgendogli il foglio firmato e guardandolo ancora come se si aspettasse una sua mossa.

«Pino…» Michele non sapeva come continuare.

Il mastino, rassicurato dal fatto che tutto sembrava essere tornato normale, indicò nuovamente l’uscita a Michele che non si mosse.

Pino disse «guaglio’ lascia stare. È un amico mio».

Aprì la porta del camerino e gli fece cenno di entrare.

«Ho detto bene, Michele? Sei un amico mio?» disse Pino quando furono dentro, sottolineando come quel Michele fosse diverso dal Mario cui aveva dedicato l’autografo.

Un brivido gli corse lungo la schiena. Come faceva a sapere il suo nome. Non c’era che una sola spiegazione. Don Vittorio era il responsabile del furto del racconto e di quello alla Teorema, e l’aveva informato lui. Ma addirittura riconoscerlo! Dovevano avergli scattato delle foto.

Pensò tutto questo in un lampo. Non sapendo quanto tempo aveva, decise per un’apertura spregiudicata che gli permettesse di verificare le sue illazioni.

«Si sono tuo amico, Antonio»

La persona che aveva di fronte assunse un’espressione sorpresa, ma non troppo.

«Nessuno mi chiama più così da tanto tempo. Allora è vero che avevi fatto ricerche e che avevi scoperto tutto?»

«No, non sapevo un accidente. L’ho scoperto solo adesso!»

Ora sì, Pino era sorpreso.

Le mille domande che turbinavano nella testa di Michele e di Pino esplosero e tutti e due presero a farle contemporaneamente.

«Ma allora tu non…?»«Come è possibile che abbiate…?»«Perché hai scritto…?»«Come mi hai…?»«ma tu…?»«Che fine ha fatto Pino Daniele?»

L’ultima domanda si stagliò chiara nella confusione, e fece fermare non solo le due voci, ma anche ogni movimento nel piccolo camerino.

Michele ripensò a quante volte in quegli anni, prima che quell’avventura cominciasse, si era posto con gli amici quella stessa domanda: che fine ha fatto Pino Daniele?

Non avrebbe mai potuto immaginare di porla un giorno a qualcuno che conoscesse la vera risposta.

«Te lo posso raccontare. Ormai il gioco è finito. Ci siamo andati vicini tante volte, ma questa è stata una cosa così improvvisa che ci ha colti impreparati».

La sofferenza che Michele vide affiorare non era in effetti ciò che si aspettava. Non si aspettava niente di tutto quello, per la verità.

Ma quelli non erano gli occhi di un truffatore scoperto che si rassegna all’inevitabile confronto, o che si guarda disperatamente intorno alla ricerca di una via di fuga.

Era un dolore vero, di perdita irrimediabile. Il turbamento ispirò a Michele una pena che quasi gli fece dimenticare di trovarsi in una situazione critica.

«Siete stati voi a…»

«Lo so a che ti riferisci. Il tuo ufficio e tutto il resto. Io non l’avrei fatto mai, né mai l’avrei permesso. So chi ha messo in moto questa cosa. Vedrò di rimediare appena capirò come fare, ma intanto sappi che nessuno sarà più messo in pericolo per nessuna ragione. Ho provveduto a fermare ogni…»

Toc, Toc.

«Avanti»

Entrò un uomo di colore, che Michele non riconobbe.

«Pino è venuta Marcella…» dietro di lui entrò sorridendo Marcella.

«Ciao, Pino»

«Uè, Marcè. Come stai?»

«Io bene» poi spostando lo sguardo verso Michele, che era rimasto in silenzio, disse «vedo che già vi siete conosciuti»

Michele avrebbe voluto parlare ma temeva di tradire con la voce le emozioni che stava provando. Sentiva di avere nella pancia come due alligatori che combattevano per il predominio sul territorio.

«Sei amica sua?» intervenne Pino, che era meglio allenato allo stress.

«Sì, Siamo venuti insieme. Bel concerto».

«Grazie»

Seguì un silenzio imbarazzato in cui nessuno sapeva cosa dire. Lo interruppe Michele che, ritrovata un po’ di padronanza disse «Allora grazie dell’autografo, noi ti lasciamo…»

«Hai fatto fare l’autografo a Mario?» intervenne Marcella.

Michele e Pino scoppiarono in una risata liberatoria, lasciandola stupefatta.

«Che ho detto?» chiese meravigliata.

Quando Michele tentò di spiegare che si era presentato come Mario per farsi firmare l’autografo per l’amico, Marcella capì e portandosi una mano alla bocca disse «Ti ho fatto fare una figura di merda! scusami…»

Pino prese una cartolina del concerto e disse «Vabbé dai, te lo faccio pure a te l’autografo». La firmò e gliela diede.

Michele ringraziò e mentre la infilava distrattamente nella tasca posteriore dei jeans, notò che Pino non ci aveva scritto la sua firma, ma un numero di cellulare.