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Il cantante di blus - Capitolo 37

XXXVII.

Era sul letto da meno di tre minuti. O almeno così gli era parso quando lo squillo del telefono lo riportò a fatica nel mondo reale.

Avrebbe voluto chiamare i suoi amici prima, ma era troppo esausto per sostenere una discussione con loro, che a ragione gli avevano detto di starci attento con quella gente.

Così Michele si era messo sul letto, vestito com’era da oltre trenta ore, e si era addormentato.

Ma, consapevolmente, aveva lasciata aperta la sua porta tecnologica sul mondo. Ed era quella che ora stava reclamando il suo ruolo di torturatrice del sonno che implicitamente gli aveva concesso.

Prese il diabolico apparecchio dal comodino, dove questa volta aveva ricordato di riporlo, e vide il nome di Manuela lampeggiare sul display.

Vide anche l’ora sulla radiosveglia. Un calcolo complesso gli permise di capire che i suoi tre minuti erano durati quasi cinque ore.

«Insomma non si può proprio dormire in santa pace?»

«Quando imparerai a rispondere al telefono come si deve? Che fine hai fatto? Che è successo? Come stai?»

«Una domanda alla volta. Mi sono appena reso conto che non mangio da troppo tempo, e se tu e Giorgio volete qualche ragguaglio, dovete prima permettermi di nutrirmi. La mia cucina non è praticabile al momento. Che ne dici di vederci da Mario al Salaria tra mezz’ora?»

«Ma dicci almeno come stai…»

«Io sto bene, credo. In salute, almeno. E tutto dovrebbe essersi sistemato. A dopo».

«Devi imparare anche a chiuderle le conversazioni. Ciao».

La mezz’ora fu spesa tutta sotto la doccia tiepida. E Michele avrebbe voluto passarci anche più tempo. Ma non voleva che gli amici lo aspettassero troppo. Inoltre il buco nello stomaco stava trasformandosi in una voragine che al confronto il Grand Canyon sembrava una minuscola crepa.

Uscendo si affacciò nella cucina. I segni dello scempio della notte prima esibivano una macabra immobilità. Persino una sedia, rovesciata probabilmente dalla scientifica per tracciare il contorno del cadavere, era rimasta con la spalliera appoggiata al frigorifero. L’unica cosa che aveva cambiato aspetto era il sangue ormai rappreso, diventato, dal rosso che ricordava, un marrone scurissimo che sembrava caramello bruciato.

E poi c’era un odore…

Era cattivo e dolciastro, così denso che sembrava di poterlo toccare. Una volta aveva letto che l’olfatto percepisce le molecole odoranti dissolte nell’aria. Materia. La cosa l’aveva impressionato molto, perché prima di allora, aveva sempre immaginato che un cattivo odore non avesse una connessione fisica con ciò che lo genera. Adesso più che mai capiva che quella connessione doveva esistere.

Si chiese come avrebbe fatto a pulire, a sistemare quel casino. Scene di quel tipo le aveva viste solo al cinema. E nei film non si parla mai di quello che succede dopo il passaggio della scientifica. Di quelli che devono lavare via sangue e resti umani, otturare fori di proiettili nei muri, e riportare gli ambienti a ciò che erano prima di diventare scene del crimine.

Quelli che devono far sparire odori simili.

D’improvviso non aveva più molta fame. Si voltò piano verso la porta e uscì.

Quando arrivò al Salaria trovò una tavola imbandita carica di quasi tutto il repertorio di Mario. Il servizio non era il punto di forza del bar. Di solito ci si serviva da soli e si mangiava con argenteria, come Mario la chiamava, rigorosamente monouso.

Quella sera, invece, la tavola era davvero lussuosa per gli standard del locale.

«Michele…» dissero praticamente tutti in coro appena entrò. L’attesa era palpabile.

Manuela e Giorgio si erano alzati per accoglierlo, quasi fosse un reduce di guerra. Vide anche Bea, evidentemente avvertita dai due, che restò seduta a guardarlo con uno sguardo di preoccupazione e rimprovero insieme.

Mario, sentiti gli altri, venne fuori dal retro e urlò un saluto. Lui non aveva saputo cos’era successo, e tutti si erano ben guardati dal diffondere una notizia che avrebbe richiesto troppe spiegazioni.

«Buonasera, che si mangia?» esordì lui tentando, senza troppo successo, di apparire meno stanco e più allegro di quanto non fosse.

«Ti ho preparato le crêpes coi tagliolini. E lo spezzatino».

A Michele la fame tornò rapida com’era svanita e cominciò a rimpinzarsi. Non aveva avuto ancora il tempo di prepararsi e di raffazzonare una versione accettabile dei fatti.

Mentre mangiava decise che avrebbe raccontato quello a cui erano ufficialmente arrivati i carabinieri. I piccoli dettagli circa il coinvolgimento di Pino sarebbero rimasti per il momento confidenziali.

Sapeva, tanto per le leggi di Murphy quanto per esperienza, che la probabilità che un’informazione riservata si diffonda, è proporzionale al quadrato del numero di persone che la conoscono.

Come prevedeva non gli permisero di finire. Quando decisero che si era nutrito abbastanza, iniziarono il fuoco di fila delle domande.

Resse bene sulle prime, giustificando una certa ritrosia con la presenza di Mario e di altri clienti.

Ma circa un’ora dopo, risposto che ebbe a tutte le domande e raccontati tutti i fatti che decise pubblici, i suoi amici si fermarono quasi contemporaneamente a guardarlo.

«Tu vuoi farci credere che è una coincidenza?»

Bea. Lo feriva che fosse sempre lei a dubitare schiettamente di lui, come se non gli importasse di conservare la sua benevolenza. Anche se, questa volta, aveva ragione.

«Sì, certo!» disse con più impeto che convinzione, rendendosi conto solo dopo qualche secondo della gaffe.

Con sarcasmo ostentato, infatti, Bea si rivolse agli altri «Ecco, vedete? Vuol farcelo credere. Non che sia vero, però».

Manuela non parlava, ma guardava Michele con le palpebre socchiuse. Giorgio aveva un’espressione che esprimeva insieme rispetto per la riservatezza e delusione per l’esclusione.

Mario, che li aveva visti troppo impegnati a discutere di chissà cosa per raggiungerli al tavolo, era andato nel retro e si era messo a cucinare per la sera.

Anche questa volta Michele aveva una decisione da prendere.

«Fanculo Murphy» pensò. E iniziò a raccontare tutta la storia.

Giorgio fu l’unico a tentare di parlare alla fine del racconto «Vuoi dire che il tenente Ciotoli…»

«Ha capito e non vuole intervenire» lo prevenne Michele «ma ha anche ragione sul fatto che sarebbe un’indagine del cazzo. Non ha niente in mano. Sarebbe solo un bel colpo giornalistico. Per questo nessuno deve saperne niente e nessuno deve sapere che voi sapete».

«Quindi hai il numero di Pino Daniele, e vuoi invitarlo qui giovedì sera? Ma sei pazzo?». Manuela quasi non ci credeva.

«Veramente l’ho già invitato. Domani lo chiamo per ricordarglielo. Più tardi dobbiamo convincere Mario ad anticipare la festa per il suo compleanno. Ma poi perché sarei pazzo? Che c’è di male? Un artista non deve mangiare? E poi magari ci fa tre o quattro pezzi, chitarra e voce».

«Mario avrà un infarto. Altro che autografo» disse Giorgio sogghignando.

«Mario potrebbe avere più che un infarto, se gli amici di Pino, immaginando che ne hai parlato, pensano di venire qui al suo posto, a prendere quattro piccioni con un Kalašnikov».

Michele sorrise all’uscita seria di Bea. Era una soddisfazione vedere che anche lei, qualche rara volta, poteva sbagliarsi.