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Il cantante di blus - Capitolo 6

VI

Marcella stava arrivando allo studio di registrazione a piedi quando cominciò a piovere. Naturalmente non aveva l’ombrello. Li aveva sempre odiati, ma adesso ne avrebbe voluto uno per proteggere la nuova custodia in cuoio del suo sax.

Entrò nell’edificio di cattivo umore e nell’atrio incontrò Gabin, un africano che viveva in Italia da trent’anni, eccellente percussionista, che avrebbe suonato con loro per sette dei dodici pezzi dell’album a cui stavano lavorando.

«Ciao Marcella» salutò Gabin di ottimo umore mentre chiudeva il suo ombrello «sei tutta bagnata!» disse con un sorriso malizioso.

«Gabin! Sempre un acuto osservatore, eh?» sorrise lei di rimando «nonché un asso dei doppi sensi!»

«Già, ho imparato dalla migliore… che hai? Sembri stanca»

«Ieri sera sono andata in un bar con degli amici e ho fatto tardino» rispose Marcella mentre entravano nello studio «a proposito ci siamo abbuffati di risate. Ho letto un racconto che parla della morte di Pino Daniele e della sua sostituzione con un sosia mezzo pazzo, negato per la musica…»

«Già, doveva esistere una spiegazione per la robaccia che sta facendo adesso» rispose Gabin ridendo «non capisco come fa a venderla».

«Magari ha anche lui un don Cardamone, solo un po’ più grosso».

Gabin scoppiò a ridere e disse che non poteva immaginare un essere umano più grosso.

Don Vittorio Cardamone era il loro produttore, manager e promoter. Di lui si diceva nell’ambiente che era ricco di soldi quanto povero di virtù. Campano, proveniente dall’area del casertano, aveva i contatti giusti. Se ti produceva un disco potevi essere certo di un discreto successo.

Ma era una persona in cui la statura e la cultura andavano di pari passo: era alto un metro e cinquanta. Inoltre pesava oltre centoquaranta chili. Diciamolo pure: non un bello spettacolo.

Vedovo, con il suo unico figlio che aveva studiato e trovato lavoro negli Stati Uniti, era andato da alcuni anni in pensione da capo di un mandamento mafioso del casertano. Da allora si era dedicato del tutto a questo lavoro, che prima faceva solo come copertura.

Gabin, ancora ridendo, si mise a camminare verso lo studio dondolando, con le ginocchia flesse e le braccia curve in avanti, come per descrivere l’enorme pancia di Cardamone a Marcella, che non lo aveva mai visto.

Proprio in quel momento la porta dello studio si aprì e ne uscì Rocco, il chitarrista leader del gruppo, seguito da una persona che stava evidentemente accompagnando alla porta. Marcella non sapeva chi fosse, ma le appariva molto fuori posto, e le venne un dubbio.

«Marcella, finalmente!» disse Rocco, mentre Gabin smetteva improvvisamente di ridere «Ti presento don Vittorio Cardamone, che ci produce e promuove il disco».

Marcella salutò imbarazzata, e Gabin ricomponendosi, strinse la mano a don Vittorio, che già lo conosceva.

Questi salutò i due ma, con atteggiamento evidentemente irritato, chiese cosa mai fosse accaduto per farli ridere tanto.

«Ci scusi, ma è colpa di Michele» rispose prontamente Marcella per deviare il discorso dalla pantomima di Gabin.

«Michele?» don Vittorio non capiva. «E chi è Michele?»

«No, guardi è solo una sciocchezza. Una cosa successa ieri. Niente di importante».

«No, no, ditemi signorì: io so’ curioso» rispose don Vittorio piccato «sapete, a me mi piacciono i fatterelli divertenti…». Ma non dava l’idea di uno che si divertisse.

«Niente, come raccontavo a Gabin» disse, rivolgendosi a Rocco per sentirsi meno imbarazzata «ieri sera ero al Salaria con degli amici, e uno di questi ha tirato fuori un racconto che ha scritto su Pino Daniele, sulla sua presunta morte e sostituzione da parte di un sosia».

«Azz!» disse don Vittorio, che era un vero gentleman. Nel frattempo erano rientrati nello studio e lui non dava più segno di volersene andare.

«A proposito» disse Marcella a Gabin, «se vuoi leggerlo ce l’ho qui» e lo prese dalla borsa.

Don Vittorio si fece attento e apparve nei suoi occhi una luce acuta, che tutti avrebbero notato se solo Marcella non avesse attirato l’attenzione sulle pagine raccolte dalla spazzatura il giorno prima.

«Non possiamo perdere tempo ora. Abbiamo lo studio solo per tre ore e dobbiamo provare» disse il chitarrista a Marcella ma sperando che anche don Vittorio capisse l’antifona «lo leggiamo nel terzo tempo».

Il terzo tempo era l’abitudine, presa negli ultimi mesi dal gruppo, di andare a prendere un aperitivo o a mangiare una pizza dopo le prove. Il nome era mutuato dal terzo tempo del rugby, una tradizione per cui, al termine dei due tempi regolamentari della partita, i giocatori delle due squadre sono soliti ritrovarsi assieme ai tifosi per festeggiare.

«Andate, andate» disse don Vittorio «io vi sento un poco da dietro al vetro e poi me ne vado, che devo tornare a Napoli».

Così Marcella, Rocco e Gabin raggiunsero il tecnico del suono e gli altri due musicisti che stavano già provando da un po’ nella stanza insonorizzata.

Mentre si preparavano, don Vittorio, mostrando un’agilità insospettabile in un uomo con quelle proporzioni, si intrufolò nello sgabuzzino che faceva da guardaroba e scovò la borsa di Marcella. Trovò il racconto e se lo ficcò rapidamente in tasca. Poi con calma raggiunse la porta dello studio e uscì.