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Il cantante di blus - Capitolo 7

VII.

Lo squillo della sveglia lo colse nel pieno di un sogno meraviglioso che, come sapeva, di lì a poco non avrebbe più ricordato. Michele la spense e cercò di restare aggrappato a quella fantasia che già si dissolveva lentamente.

La sveglia suonava ancora, e Michele la lanciò lontano dopo averla spenta inutilmente ancora una volta. Ci vollero parecchi secondi per realizzare che era il telefono a suonare.

Si mise a cercare il cellulare, ma la sera prima non l’aveva messo sul comodino come era solito fare. Dove poteva essere finito? Riuscì miracolosamente ad alzarsi e a raggiungere il piccolo tavolo da biliardo che teneva nella sua enorme stanza da letto, e che usava quasi esclusivamente come servo muto.

Trovò il maledetto apparecchio sotto il mucchio di abiti della sera prima. Ancora squillava e vibrava come un animale pronto a morderlo. Dopo aver premuto diverse volte il tasto sbagliato riuscì a rispondere mentre si accasciava sul letto «Sì…?».

«Non dirmi che ti ho svegliato?»

Non c’era niente di peggio che sentire dall’altra parte una voce attiva e squillante.

«Nnho…»

«Ma sono le undici e mezzo! Sei davvero pigro come dicono!»

«uhmpf…chii è?»

«Sono Bea, dovevamo vederci stamattina. Non volevi vedere la lezione introduttiva di pilates?»

Michele ricordò vagamente che Bea una sera al Salaria aveva descritto entusiasticamente questa disciplina. Era qualcosa come un metodo che spinge all'uso della mente per controllare i muscoli. Ma quando avrebbe mai dato il suo consenso a essere svegliato all’alba per una lezione introduttiva?

 Mentre cercava le parole più feroci per mandare Bea dove meritava, la sentì parlare dal cellulare, che nel frattempo era scivolato sul cuscino «…va bene io sarò allo studio Pilates Rex di via Gambetti» disse col tono un po’ seccato di chi avesse sprecato del tempo «se vuoi venire la lezione è a mezzogiorno e mezza. Ciao» e chiuse la comunicazione senza aspettare risposta.

L’ascensore! Ora si ricordava. Era là che Bea gli aveva fatto quell’invito e lui aveva ‘accettato’. Possibile che non avesse colto l’ironia? Non ci sarebbe andato nemmeno morto.

Si alzò e andò a farsi una doccia.

Un quarto d’ora dopo tornò nella sua stanza da letto e, mentre si vestiva, si chiese dove fosse via Gambetti. Poi ricordò il ristobar che faceva un fantastico aperitivo (happyhour, of course!) che era in una stradina a trecento metri da casa sua, via… Gambetti, certo!

Ma non ci sarebbe andato lo stesso.

Scese al bar sotto casa per colazione, un danese e un caffè doppio rigorosamente amaro fatto da Karim, un egiziano che faceva un caffè pari a quello di Mario e che sosteneva di avere fatto anni di tirocinio a Napoli.

Quando finì, mezzogiorno era passato da qualche minuto e decise che avrebbe fatto un salto in libreria per ammazzare il tempo prima del pranzo. Il fatto che via Gambetti fosse quasi sul percorso per la libreria non lo aveva calcolato. Almeno così si disse.

«Sei venuto alla fine» disse Bea con un largo sorriso mentre quasi si scontrava con lui all’angolo dello studio di pilates. Poi guardando l’orologio aggiunse «e sei anche puntualissimo». Si voltò senza aspettare risposta ed entrò.

Michele non capì come era successo. Un momento prima stava andando in libreria, d’improvviso era comparsa Bea con indosso una felpa e un pantalone sportivo aderente, «tenuta informale, ma assai meglio che in divisa Teorema» considerò fugacemente, e adesso lei l’aveva incastrato. Non poteva certo proseguire per la libreria dopo che lei l’aveva visto e che era entrata convinta che lui l’avrebbe seguita. Sarebbe stato scortese.

Entrò a malincuore, considerando ancora che avrebbe preferito la libreria, che a pensarci bene poteva raggiungere con un percorso più diretto che non passava da via Gambetti.