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Il cantante di blus - Capitolo 11

XI.

«No, non è possibile!»

«Perché no?»

«Non può essere che tu non ti sia mai innamorato, anche parlando… com’è che hai detto? Accademicamente?» Bea era divertita dal lessico di Michele, elegante quanto inadatto all’argomento, ma era soprattutto incuriosita dall’atteggiamento recalcitrante che assumeva quando un discorso derivava pericolosamente sul personale.

Michele, dal canto suo, non riusciva a capire come avevano finito per approdare ad argomenti che lui di solito evitava in maniera meticolosa.

Bea l’aveva raggiunto a casa sua quasi quattro ore prima, vergognosamente puntuale, con il suo lucido new beetle, auto coerentemente tedesca. Michele era meravigliato che avesse scelto una macchina con uno stile così evidentemente anacronistico. Sembrava inadeguata a una professionista della tecnologia.

Gli era venuto il dubbio che le sue idee su Bea fossero viziate da una vena di pregiudizio. Era per lui evidente che tutti gli ingegneri soffrissero di deformazione professionale cronica e di scarso contatto con la realtà.

Erano arrivati in venti minuti, ed erano riusciti nel miracolo di trovare parcheggio a poche decine di metri dal Sunrise.

Il locale era pieno di gente. Alcuni sfoggiavano un sorriso inebetito. Michele non sapeva se erano presi da una lieve forma della sindrome di Stendhal davanti alla bellezza delle opere di Silvia, o se erano solo felici alla prospettiva di bere gratis per tutta la sera. Ma propendeva per la seconda ipotesi.

Presi due bicchieri, avevano iniziato a girare per il locale ammirando le opere di Silvia, ciascuna sapientemente illuminata e recante cartellino con data di ‘nascita’ e titolo.

Dopo più di mezz’ora, finalmente avevano visto Silvia che lasciava un gruppo di persone per dirigersi verso di loro.

Michele le aveva offerto un abbraccio caloroso quanto il bacio che lei, teatrale come sempre, gli avrebbe poi stampato su una guancia.

Poi le aveva presentato Bea che le aveva fatto i complimenti sulle sculture, citando anche alcuni titoli e sorprendendo Michele, che aveva pensato si annoiasse.

«Grazie per essere venuto» aveva detto Silvia «conoscendoti non ci contavo proprio»

«Non me la sarei persa per niente al mondo».

«Certo, ma se non avessi avuto compagnia saresti rimasto in pantofole. Scommetto che sei dovuta andare a prenderlo fino a casa» aveva risposto guardando Bea, che sorrideva imbarazzata.

«È stata un’idea sua» sparò Michele con foga. Ma aveva risposto troppo rapidamente e in tono difensivo, e si era irritato non poco per la sua impulsività.

«Sì, come no!» aveva riso Silvia «Scusate vi lascio un attimo. Godetevi la serata intanto».

Michele si era voltato con intenzioni omicide verso Bea, che era rimasta in silenzio, scoprendola a trattenere una risata.

«Potevi dire qualcosa…»

«Se dicevo che ti ero venuta a prendere davvero, finivo per peggiorare le cose. Ma a quello ci hai pensato tu…»

Michele l’aveva odiata per alcuni istanti prima di accorgersi che lo avevano solo preso in giro. Allora aveva deciso che non le avrebbe permesso di continuare e aveva riso insieme a lei.

Il sorriso si era spento quando la sua attenzione si era concentrata su un messaggio che aveva visto affisso in più punti, ma che non aveva ancora letto. Era un avviso che ricordava ai visitatori che, essendo il lunedì giorno di chiusura, non sarebbe stato possibile cenare per l’assenza di personale alle cucine.

«Porca miseria!»

«Che c’è?» aveva chiesto Bea.

«A pranzo non ho praticamente mangiato perché contavo di cenare qui. Invece guarda…». Michele indicava l’avviso.

«L’ho già letto. E allora? Possiamo cenare da un’altra parte».

Eccola di nuovo. L’ingegnere che legge sempre gli avvisi, che ha tutte le soluzioni. Quanto era irritante! E poi, chi l’aveva invitata a cena? Se si fosse potuto cenare al Sunrise, certo l’avrebbero fatto insieme. Ma adesso…

«Non lo so, vedremo…» aveva risposto Michele mal celando il suo malumore.

Meno di mezz’ora dopo avevano salutato Silvia e si erano avviati alla macchina.

Michele aveva intanto riflettuto che doveva pur mangiare ed erano venuti con la macchina di Bea. Il tempo necessario per farsi portare a casa e uscire di nuovo, sarebbe stato sufficiente a farlo morire di fame.

Non c’era scelta. Anche questa volta il suo rifiuto sgarbato non era servito: dovevano andare a cena insieme.

«Allora?» aveva attaccato Bea appena seduti in macchina «Dove andiamo?»

Il fatto che lei desse per scontate le cose che lui aveva rimuginato, stava per irritarlo ancora. Ma decise che avrebbe smesso di farsi stizzire da Bea. Non le avrebbe concesso quella soddisfazione.

«Non so» aveva detto quasi allegro, e gli era parso di vedere una punta di delusione nell’espressione divertita di lei «Proponi tu, conosci un posto carino da queste parti?»

«Ti ci porto» decise lei.

Il ristorante Alverido era poco più che una bettola, in linea con i posti che Michele di solito frequentava.

«Non è il posto che mi aspettavo» aveva detto Michele mentre sceglievano un tavolo «immaginavo un locale più…»

«… pratico, da ingegnere» lo aveva interrotto Bea «Un posto pulito, illuminato al neon, dove si potesse mangiare in vassoi di plastica asettica, con quattro scomparti per quattro portate nutrienti e insapori.» Bea lo aveva guardato con aria di sfida. Ma sorrideva.

«Non era quello che intendevo» aveva detto Michele, con tutta l’aria di pensare il contrario. Bea l’aveva stupito indovinando i suoi pensieri, ma la serata era solo all’inizio. Anche se Michele non lo sapeva.

«Forse dovresti cominciare a pensare alla gente senza farti influenzare dal mestiere che fa» aveva ripreso Bea, decisa a non fargliela passare liscia.

«Ma che dici? Io non mi faccio influenzare per niente. Le persone sono persone, prima di tutto».

«Già. Ma gli ingegneri?»

«Sono un po’ persone anche loro, no?»

Avevano riso insieme mentre il ghiaccio lentamente cominciava a sciogliersi.

Dopo che ebbero ordinato, la conversazione si era fatta piacevole. Michele era un ottimo ascoltatore e a Bea non dispiaceva raccontarsi.

«Io non volevo fare l’ingegnere, è stato un caso. Anzi è stato un ragazzo»

«Un ragazzo?»

«Sì, la mia vita è stata scandita dalle mie storie d’amore. Da ragazzina ero corpulenta, anzi direi decisamente grassa. A dodici anni ero in seconda media e pesavo settanta chili. Gli amici mi prendevano in giro con la cattiveria che solo i bambini sanno avere.

«Mi innamorai di un ragazzino di terza, ma sapevo che non mi avrebbe mai guardata, grassa com’ero. Decisi che sarei dimagrita e in tre mesi persi quindici chili. Mangiavo pochissimo e avrei rischiato una diagnosi di anoressia, se all’epoca l’attenzione ai disordini alimentari fosse stata quella di oggi.

«Alla fine riuscii a farmi notare, e tra una cosa e l’altra uscimmo insieme. Ma poi decise che gli piaceva un’altra, e io finii per dimagrire di altri dieci chili perché non avevo più voglia di mangiare. Questa storia mi ha consentito di evitare una prospettiva di obesità di lungo termine. Ancora oggi mi riferisco a lui come al mio dietologo.

«Poi ho imparato il tedesco grazie a un ragazzo di Ingolstadt, una splendida cittadina della Baviera, in riva al Danubio. Lo conobbi a una gita con il liceo e mi invitò a passare una vacanza da lui. Parlava un po’ di italiano, ma io cominciai alacremente a studiare il tedesco. Due mesi dopo la vacanza rompemmo, ma il tedesco in quanto lingua mi aveva affascinato di più del tedesco in quanto uomo.

Michele aveva sorriso e fatto un cenno insieme di assenso e incoraggiamento. Si riduceva spesso a quello il suo contributo ad un dialogo, ma di solito bastava ai suoi interlocutori per sentirsi a proprio agio. Inoltre, la voce di Bea lo stava rilassando.

«Così passiamo all’ingegneria. Avevo una storia tormentata con un ragazzo che aveva problemi di ogni specie. Credo fosse uno psicopatico. È passato tanto tempo e ancora oggi non so come potesse avere su di me un controllo così forte. Screditava ogni mia iniziativa definendomi una stupida, incapace di raggiungere un qualunque obiettivo e facendo crollare la mia autostima. Molto tempo dopo, leggendo una enciclopedia della psicoanalisi, trovai una descrizione sintomatica che gli si attagliava perfettamente, ma non ricordo più quale era la diagnosi. Lo lasciai tra mille sofferenze e sensi di colpa, e dovendo scegliere il corso di laurea, mi chiesi quale fosse più difficile per me. Scelsi Ingegneria informatica. E quindi mi trovo ad essere un ingegnere. Non me ne sono affatto pentita per la verità».

«E adesso?» contrariamente alle sua abitudini Michele si era spinto a una domanda personale. Si sarebbe interrogato in seguito sui motivi di quella innocente curiosità.

«Adesso, dopo un’altra storia burrascosa, vivo una felice singletudine»

«Singletudine?»

«Sì, è un neologismo di mia invenzione» si affrettò a dire Bea, ricordando l’avversione di Michele per le storpiature anglofone della lingua. «È una contrazione di single e solitudine. Felice singletudine, perché non ho attualmente una relazione sentimentale, e perché sono felice della libertà che solo la solitudine può dare».

«Ma è una cosa di una tristezza infinita!»

«Ma no. La solitudine è una condizione ingiustamente sottovalutata. Ci sono solitudini tristi, come quelle degli anziani abbandonati nelle case di riposo, ma ci sono anche solitudini felici e serene come quella di una persona, adulta e in buona salute fisica e mentale, che vuole e può fare a meno di un logorante e costrittivo rapporto di coppia. Ed è felice lo stesso, anzi di più».

«Già, è vero. Almeno lo è finché non diventa un’anziana abbandonata in una casa di riposo».

Bea sorrise pensierosa. «Sì, forse hai ragione. Forse si ci sente così bene solo dopo aver metabolizzato la fine di una storia, ma prima che passi il tempo sufficiente a sentirsi di nuovo davvero soli».

L’aveva fatto di nuovo. Ancora una volta aveva rigirato un argomento, stavolta tutto suo, e con poche parole, pur contraddicendosi, ne aveva colto il senso pieno. Michele era così colpito che quasi non l’aveva sentita parlare.

«Scusa…?»

«Ho detto: Tu, invece?»

«Oh, io. Io sono un mandrillo rapace che tenta di aggredire sessualmente tutto quello che respira. Peraltro con mediocri risultati, dovuti allo scadente equipaggiamento e alla senilità precoce che colpisce il mio corpo dalla cintola in giù»

«Perché fai sempre lo scemo?»

«Se mi riesce così spesso, forse non lo faccio. Magari lo sono».

«No, dai smettila. Io mi sono confessata completamente. Avrò il diritto a qualche domanda».

«Non abbiamo mica preso accordi. Io so ascoltare senza fare domande, ma mi oppongo, vostro onore, alla supposta reciprocità obbligatoria delle confidenze».

«Certo, ma tu qualche domanda l’hai fatta…» Bea sapeva di averlo incastrato.

Quanto mai opportunamente, il cameriere era arrivato con le loro ordinazioni. Michele si era appuntato mentalmente di ampliare largamente i suoi canoni circa le mance per quella sera.

«Salvato dalla campanella» aveva detto Bea implacabile.

Avevano mangiato un ricco ed eccellente antipasto, ma Michele finì per non gustarlo appieno, pensando che la cena sarebbe stata troppo lunga perché il suo atteggiamento riservato reggesse.

Altre volte si era reso conto che era faticoso mantenere il riserbo sulla sua vita privata, guai a chiamarla privacy.

«Avevo dodici anni» aveva cominciato mentre Bea, meno vorace di lui, stava ancora mangiando «e lei era bellissima, bionda, capelli arricciolati ma non crespi, occhi di un canonico azzurro mare. Ero in vacanza con la mia famiglia e con alcuni altri parenti. Lei la conoscemmo in spiaggia. Una sera l’accompagnai a casa e la baciai sulla porta, terrorizzato dai rumori che provenivano dall’interno. Storia meravigliosa durata venti secondi: era fidanzata con mio cugino da due settimane e io sarei partito il giorno dopo. Non l’ho più rivista».

«Grande. Hai tradito la fiducia di tuo cugino per una ragazza che non hai più visto?»

«Tradito, che parolone. Un bacetto innocente. Tra le altre cose nemmeno lui l’ha più rivista, dopo quell’estate».

«Se ancora te lo ricordi, non doveva avere molto di innocente»

«Ma era il primo bacio, non puoi dimenticarlo. Poi ho temuto che glielo dicesse, il che avrebbe significato un solenne pestaggio da parte del cugino incazzato».

«Invece lei non disse nulla…»

«Donne…» aveva concluso lui come se questo spiegasse ogni cosa.

«Vai avanti». Bea era interessata ai racconti di Michele più che a polemizzare sul suo simulato maschilismo.

«Non c’è altro, non la rividi più».

«Ma te ne eri innamorato?»

«Macché, avevo dodici anni»

«E allora? Non c’è mica un limite di età? Anche a dodici anni può capitare»

«Non a me, né a dodici né a quaranta».

«Ma che dici, succede a tutti. Deve essere capitato anche a te».

«Ma dai. Non è mica il morbillo che uno se lo prende per forza?»

«Già, forse hai ragione. Poi alla tua età, ormai è tardi…»

Michele era in un’età in cui si ci sente ancora ragazzi, ma si comincia ad essere sensibili alle frasi come ‘alla tua età’.

Bea, avendo percepito il suo rabbuiarsi, aveva cercato di deviare il discorso «Avanti, almeno una compagna di scuola, la prof. di matematica…»

«No, era di filosofia»

«Ah, beccato!»

«Non è come pensi…»

«Su racconta…»

«Era supplente della megera che ci insegnava filosofia riuscendo a farcela odiare, e che si era rotta una gamba sulla neve. Quaranta giorni di prognosi. Stappammo una bottiglia nel cortile della scuola.

«Lei si chiamava Desia che, come scoprii fatalmente, era una variante femminile di Desiderio. Immagini le elucubrazioni che una giovane mente intrisa di filosofia può fare solo su un nome?

«Anni fa, molto tempo dopo, lessi un meraviglioso libro di Roberto Vecchioni, in cui mi colpì una geniale quanto inverosimile etimologia di ‘desiderare’: da de che starebbe per giù da, e sidera che sono le stelle; chiedere che dalle stelle scenda qualcosa che si brama.

«Ma un giorno, visto che dalle stelle non arrivava nulla, la invitai a cena. Non so dove trovai il coraggio di farlo, e lei fu fantastica: riuscì a respingermi senza montare un casino, e, soprattutto, senza mortificare il mio gesto avventato umiliandomi come sarebbe stato naturale. Fu davvero in gamba per una ragazza di neanche trent’anni.

«Io, dato che ovviamente tutti sapevano tutto, diventai l’eroe della classe e, via via che si diffondeva la voce, anche dell’intero istituto. Allora credevo davvero di amarla, ma in realtà erano stati solo quaranta giorni di desiderio.

«Una bella storia che, ovviamente, dovevi rovinare con la tua conclusione cinica» interloquì lei mostrando un finto broncio.

«In seguito la rividi in una delle mie librerie preferite. Fu imbarazzante perché era la Lilliput. Era una libreria del mio paese che aveva un cartello sulla porta che recitava ‘benvenuti nella libreria più piccola del mondo’. Infatti era circa due metri per due e se ti ci incontravi con qualcuno non potevi nasconderti in un altro corridoio.

«Lei mi salutò allegramente e mi chiese cosa facevo, gli studi, insomma le solite cose. Dovetti deluderla molto raccontandole gli approcci ai più disparati corsi di laurea, caratterizzati da spumeggianti inizi e repentini crolli d’interesse. Io sostenevo che questi rovesci fossero prodotti dalla mia istintiva avversione alla continuità, scambiata dai maldicenti per monumentale pigrizia. Lei si schierò coi maldicenti, naturalmente.

«Le raccontai anche della mia malattia e infine ci salutammo con l’usuale promessa vana di rivederci presto»

«Che malattia?» chiese Bea allarmata.

«Io soffro di un male attualmente incurabile: il morbo di Gutenberg»

«Scemo»

«Guarda che è davvero una malattia».

«Sì, lo so. Anche se non sono ammalata, ho letto anch’io Giancaspro. Se scrivi pure, devi essere grave».

«No, il Cdb è la mia opera prima. In verità, molti anni fa, tentai di scrivere un romanzo di spionaggio. Non ne feci niente quando mi resi conto che non avrebbe funzionato se la protagonista non avesse avuto una storia d’amore con un altro personaggio. Non ero capace di scriverla e abbandonai il progetto».

«A me sembri bravo»

«Forse sono cresciuto, forse mi sei amica o forse nel Cdb non c’è la storia d’amore, quindi…»

«In fondo hai avuto le tue storie d’amore, tutto sommato».

«Non si possono chiamare così. Nessuna di queste cose è durata più di qualche settimana».

«La si può definire storia d’amore solo se dura un certo tempo?» Bea stava alzando il tono.

«Sì, deve essere per sempre» aveva replicato Michele. Ma il tono era ironico. «La verità» aveva aggiunto poi «è che sono incapace di provare sentimenti alti. Sono sempre come scritti da leggere per me. Una cosa un po’ finta».

«Quindi non ti saresti mai innamorato?»

«Insomma, non nel senso accademico del termine…»

«No, non è possibile!»

«Perché no?»

«Non può essere che tu non ti sia mai innamorato, anche parlando… com’è che hai detto? Accademicamente?»

Ed era così che ci erano arrivati.

Michele aveva parlato senza rendersene conto, quasi tra se. Non riusciva a credere che Bea lo avesse spinto ad aprirsi fino a quel punto. E nemmeno gli dispiaceva troppo.

«Ehi? Che fai, vai in blocco? Hai proprio idea che esista un senso accademico di innamorarsi?»

Michele non si era reso conto di essersi fermato a ripensare alla serata passata, quasi a volersi accertare che tutto quello fosse accaduto davvero.

«Ehm, sì» rispose in tutta fretta, come colto in fallo «voglio dire che esistono dei requisiti necessari per ogni attività umana. È evidente che a me mancano quelli per l’amore. Nei suoi maggiori momenti di affetto Manuela, che ben mi conosce, mi chiama heartless, senza cuore».

«Dici che ha ragione?»

«Sì. Ho un gran rispetto per la sua opinione».

«Secondo me sbaglia».

«Non lo so… vedremo».

Diede la sua risposta sgarbata automaticamente, senza cogliere l’altro possibile significato del suo vedremo, che aveva provocato in Bea un sorriso di tipo diverso.