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Il cantante di blus - Capitolo 3

III.

Due settimane dopo, in ritardo sulle previsioni per la gioia di Michele, Bea convocò la riunione per lo startup del KMS.

«Startup» pensò Michele leggendo l’e-mail di Bea «ma devono proprio usare terminologia anglofona per indicare anche cose banali come l’avvio?». Rispose con «Sarò ready and active per il briefing. Il mio calendar ha dato l’okappa».

Nella sala Giorgio e Manuela parlottavano aspettando gli altri, quando Michele entrò con una cartella di plastica blu elettrico in mano. Nella tasca trasparente sul dorso, una scritta campeggiava sul cartoncino che doveva indicarne il contenuto: Il Cdb.

Ne trasse una decina di fogli stampati e li tenne in mano mentre salutava. «Ciao, che state cospirando? L’omicidio del sergente Bea Palida? Io vi faccio da palo!».

Manuela fece una smorfia e chiese «Perché sei così stronzo?» come se si informasse sul tempo.

«Sono nato così» rispose Michele passando i fogli a Giorgio «date un’occhiata a questo».

Giorgio sedette e cominciò a leggere i fogli di Michele, e Manuela, in piedi, sbirciava alle sue spalle.

Bea era stranamente in ritardo come pure Luca, che però ai ritardi aveva abituato tutti i suoi amici e colleghi.

«Davvero bello» concluse Giorgio mentre Manuela gli strappava i fogli dalle mani per finire di leggere. Era un gran complimento da un lettore esigente come Giorgio.

«Dove l’hai trovato?» chiese alla fine Manuela.

«L’ho scritto io» rispose Michele insolitamente timido.

Manuela e Giorgio si guardarono increduli, poi tutti e tre scoppiarono a ridere. Il racconto che avevano appena letto era uno spasso già così, ma pensavano a quando l’avrebbero fatto leggere agli amici del Salaria e a come avrebbe reagito Mario.

A spezzare il buon umore arrivò Bea. In azienda indossava sempre tailleur molto sobri che nascondessero le sue generose forme, e si comportava come un ufficiale del Bundesheer.

«Scusate il ritardo, ma alle risorse strumentali mi hanno fatto perdere tempo per il…» si rese conto che aveva interrotto qualcosa.

«Che succede?» chiese, proprio mentre faceva il suo ingresso Luca, con un ritardo ai minimi storici: solo quindici minuti.

«Niente, siamo pronti, possiamo cominciare» disse Michele mentre prendeva i fogli e li infilava nella cartellina.

«Già, siamo ready…» disse Bea con un sorriso che non chiariva se si divertisse o disapprovasse.

Per quasi un’ora li informò sul KMS e sul suo funzionamento, finché dovettero anche un tantino ricredersi sulla sua effettiva utilità. Alla fine fu una chiamata di emergenza per Bea che pose fine al supplizio.

Luca stava per andarsene ma Manuela lo fermò «Aspetta devi leggere una cosa…».

«Non se è più di dieci righe…».

«È di più, ma ne vale la pena» intervenne Giorgio.

Michele gli passò le pagine stampate e rimase a guardarlo. Se Luca avesse resistito per due pagine sarebbe stato un successone. Di solito leggeva solo l’ultima riga persino degli oroscopi. «Tanto è lì che c’è scritta la cosa importante» diceva.

Arrivò invece a finire il racconto, e quando seppe che Michele ne era l’autore gli fece i complimenti.

«Ma come t’è venuto di scriverci un racconto?» gli chiese.

Michele si strinse nelle spalle.

Luca rise e disse «hai dimenticato di firmarlo. Non lo farete leggere a Mario?». L’espressione maliziosa degli amici rispose per loro.

Davanti alla macchina del caffè che aveva sostituito Mario senza ereditarne qualità e simpatia, Michele tentava di convincere la gettoniera ad accettare le sue monete, dato che sulla schedina prepagata aveva esaurito il credito. Mentre stava cominciando a odiare tutto il mondo della tecnologia, la macchina infernale fece un bip e Michele si accorse che qualcuno dalle sue spalle aveva inserito una scheda carica.

«Ciao, se vuoi ti offro io il coffee break» disse allegra Bea enfatizzando le parole in inglese con un perfetto accento Oxford.

Michele grugnì un ringraziamento e attese che il caffè venisse erogato.

«Allora, intendi dirmi quello che facevate in sala riunioni prima che arrivassi, o sono esclusa da certe manovre?». L’aveva detto di proposito per suscitare una reazione indignata, ma Michele la deluse.

«Sei esclusa, mi dispiace. Grazie per il coffee» rispose tornando nel suo ufficio.

 

Bea era entrata senza un rumore e Michele trasalì quando la sentì parlare. «Non è che voglio impormi o essere invadente, ma lavoriamo insieme e non mi piace che si faccia comunella alle mie spalle. Volevo solo dirtelo».

Ora che lei stava uscendo dopo quella sparata, avrebbe voluto richiamarla per chiarire che la cosa non riguardava affatto il lavoro. Ma avrebbe dovuto farle leggere il suo racconto e non riusciva a spiegarsi perché non gli andava di farlo. Pensò fugacemente che temeva il suo giudizio, o la sua derisione, ma…

«Bea…»

Si girò sulla soglia, che aveva raggiunto lentamente proprio per incoraggiare Michele a fermarla.

«Sì?» non le riuscì di dirlo senza affettazione e avrebbe voluto mordersi la lingua. Michele finse di non accorgersene.

«Se hai da sprecare una decina di minuti siediti e leggi questo» le disse passandole il racconto.

Lei prese i fogli e cominciò a leggere.

 

Il cantante di blus

I

«Nun ce penza’ proprio! Nun ce vaco!». Sembrava un rifiuto indiscutibile ma Maurizio non demordeva.

«Ci devi andare Pino, ho promesso che ci sarai. Sai che ti serve un po’ di rilancio d’immagine, e poi la richiesta non è facile da rifiutare…».

Pino stava perdendo la pazienza. «Io nun ce vaco a na specie ‘e festa ‘e piazza a me sputtana’ … Ho faticato per levarmi da dosso l’etichetta di cantante napoletano, e mo che sono un cantante di blues me ne fotto dell’immagine, vabbe’?! E poi te l’ho detto, porto Laura in vacanza sabato».

«Non lo puoi fare. Tu hai delle responsabilità, la gente che lavora con te si aspetta delle cose, io mi aspetto che tu ti comporti secondo le regole e per il bene comune…».

«Mauri’… Mauriii’: vafancul!».

E corse via, senza dimenticare di sbattere la porta.

«Bene» si disse Maurizio, assurdamente a voce alta visto che era rimasto solo nel suo lussuoso ufficio di produttore musicale «e mo’ come cazzo si fa?» e fece il numero di Gianni.

Rispose al primo squillo come se fosse stato a guardare il telefono in attesa di quella chiamata, e probabilmente era proprio così. «Pronto? Maurizio?» la sua voce tradiva un’ansia difficile da nascondere. «Che ha detto?».

Maurizio era in difficoltà. «E che doveva dire? mi ha mandato affanculo, ha detto che lui è un ‘cantante di blus’ e se ne fotte…».

«E tu, glielo hai detto quello che ti ho suggerito?».

«Ma che dovevo dire, non mi ha manco dato il tempo di parlare, se n’è andato sbattendo la porta… senti dobbiamo vederci e parlare…».

«Si, vengo subito… sta cosa s’adda risolvere».

Maurizio dalla finestra ammirava i colori che il sole pomeridiano dipingeva sulla città, ma il notevole spettacolo non riusciva a distrarlo dal problema che lo attanagliava. Da due anni ormai seguiva questa gallina dalle uova d’oro, lo coccolava e lo assecondava, anche in quell’assurdo progetto di creare una sua casa discografica a 60 chilometri dalla città, ma questa volta avrebbe dovuto stare a sentirlo. La cortese richiesta degli organizzatori del PartenopeFestival non poteva essere disattesa da nessuno e men che mai da Gianni, ormai troppo coinvolto in affari con quella che Maurizio chiamava gentaglia.

«Gentaglia, si, però i loro soldi non ti fanno schifo» rispose Gianni all’ennesimo biasimare di Maurizio.

Tutti e due sapevano che quello di Maurizio non era un vero rimprovero, ma più un voler apparire estraneo a quelle logiche di cui una persona perbene non poteva far parte. Ipocrisie che Gianni aveva imparato ad abbandonare appena uscito di galera, quando scoprì con meraviglia di non essere visto come un reietto, un ex-galeotto ma come una persona che meritasse rispetto. Da allora i contatti con la gentaglia insieme al lavoro di pubbliche relazioni con Maurizio avevano dato ottimi frutti. Ultimamente, però, le speculazioni avventate di Maurizio, e i frequenti scivoloni al gioco di Gianni, avevano messo i due in crisi. Naturalmente, gli amici, la gentaglia, era corsa in aiuto. Tassi da strozzini, ma sai com’è, tanto ne veniamo fuori con il nuovo disco di Pino.

Ora però c’era il problema del PartenopeFestival ’85 e quelli volevano un nome nazionale per la gran serata di sabato. Nel piccolo borgo provinciale del casertano, nessuno avrebbe valutato che Pino strideva come un vestito bianco ad un funerale in quella situazione.

«Gli hai detto che potrebbe ridursi a uno o due pezzi, un saluto, insomma una comparsata?» disse Gianni ormai sull’orlo dell’esasperazione.

«Gianni, ma ti credi che sono scemo? Gli ho detto tutto, si, ma non ne vuole sapere… ho passato l’ultima settimana allo studio di registrazione, a casa sua, e oggi nel mio ufficio e tutto quello che ho ottenuto è un vaffanculo!».

Gianni decise che era il momento di chiarire per bene le cose «Tu lo hai capito che noi don Salvatore non lo possiamo contrariare, si?».

«Oh, ma allora che devo fare, puntargli una pistola?» disse Maurizio esasperato.

«Eh…».

«Che significa eh…, sei impazzito?» ma il tono di Maurizio non era convinto quanto apparivano le sue parole.

«Guaglio’, qua ci stanno due possibilità: o ci va, oppure ci va? È chiaro?».

«Ma che fai mi minacci a me? E io che ci posso fare?».

«Tu puoi passare al piano B».

II

Uscendo all’aperto Pino scoprì che nell’ora che aveva passato con Maurizio lo strato di nubi si era aperto, e ora un sole primaverile esaltava la naturale bellezza del golfo. Sentì che la rabbia sbolliva, ma ancora non riusciva a credere che Maurizio volesse costringerlo a partecipare al PartenopeFestival ’85, una rassegna di cantanti napoletani che pretendeva di mettere insieme le nuove leve della musica napoletana con la tradizione più classica. E lui? Che c’entrava lui, che rispettava la tradizione quanto odiava le nuove leve, e che non si sentiva parte di nessuna delle due categorie? Vaffanculo a Maurizio. Salì in macchina e si fece portare allo studio di registrazione. Meglio pensare a finire l’ultimo lavoro. O’ tiempo vola, si disse, e ci voleva ancora cchiù de na bona jurnata per finire.

Arrivò allo studio ancora agitato, e i ragazzi che lo aspettavano lo notarono subito. Qualcuno che lo conosceva meno, tentò di farlo parlare, accorgendosi troppo tardi che in quello stato Pino doveva solo mettersi a suonare per potersi calmare. Tre ore dopo non erano riusciti a risolvere il problema del pezzo trainante del nuovo album, che mancava del solito ritmo, e che non prendeva. Pino non era concentrato, disse a tutti di andarsene e chiamò Laura.

III

Gianni e Maurizio non potevano costringere Pino, e non avevano di che ricattarlo. Non potevano fargli sapere con chi facevano gli affari che consentivano di produrre la sua musica, perché avrebbe potuto andarsene o addirittura denunciarli. In realtà la possibilità che Pino potesse abbandonarli era emersa troppe volte nelle ultime settimane, specie in coincidenza con i tentativi di Maurizio di convincerlo a partecipare al festival. Questa prospettiva era disastrosa per i due soci, che ormai contavano sugli incassi dei prossimi lavori di Pino per rimettersi in piedi.

Fu così che Gianni concepì il piano B. Era tutto molto semplice, niente poteva andare storto. Come si pensa di ogni piano prima che, messo in atto, cominci a mostrare le centinaia di cose che non si erano previste.

La risonanza di quello sputo di manifestazione sarebbe stata minima, qualche trafiletto sui quotidiani nazionali e in televisione forse niente: insomma massimo due giorni e se ne sarebbe dimenticato il mondo intero anche se Pino avesse realmente partecipato. Ora se Pino fosse stato in vacanza… o se…

«Non può funzionare…» Maurizio era fuori di sé. Gianni insisteva su quella sua assurda idea. «Non capisci che non puoi fare una cosa simile? Se si viene a sapere io sono finito come produttore…».

Gianni cercava di essere paziente «Guarda che se si viene a sapere, la tua carriera sarà l’ultimo dei problemi».

«Appunto» scattò Maurizio «lo vedi che mi dai ragione? Non si può fare, non so perché ancora ne parliamo».

«Ne parliamo perché si può fare e si deve fare, non abbiamo altra scelta: se diciamo no alla gente che ce lo ha chiesto, siamo finiti. Se lo facciamo, saremo finiti solo se lo scoprono».

Due anni prima Gianni aveva messo su un ciclo di audizioni per musicisti. Salta fuori questo tizio che si mette a fare l’imitazione di Pino. Gli somiglia in maniera impressionante ed è anche bravino con la chitarra, forse più che bravino; ma se vuoi talento non cercare tra gli imitatori, è un assioma del produttore. Un imitatore può avere della tecnica, ma l’emulazione denota una mancanza di fantasia inconciliabile con il talento. Responso: «Divertente e pure bravo, ma non ci interessa». Per mesi il folle lo tampinò al telefono per farsi riascoltare o riparlarne nonostante Gianni lo respingesse, anche in malo modo. Alla fine si arrese, e Gianni si dimenticò di lui. Finché non rifletté che la cosa poteva essere utile per risolvere questo problema.

«Capisci che non possiamo tenerlo all’oscuro? dovremmo dirgli che non sta facendo un’imitazione, ma una truffa».

«Lo pagheremo bene, è un morto di fame. Fidati conosco il tipo». Gianni era risoluto per quella che vedeva l’unica via d’uscita.

«E’ una cazzata colossale. Non possiamo farlo…» ma ormai la convinzione di Maurizio vacillava.

«Facciamo così: parliamo con Gaetano e poi vediamo se ti convince».

 Gaetano era il pazzoide imitatore. Gianni l’aveva contattato due giorni prima e lui si era detto entusiasticamente disponibile per un ingaggio non meglio specificato. Gianni aveva tentennato solo un attimo scorgendo, nella voce al telefono, altri segni di alienazione mentale. Gli aveva raccontato della sua solitudine di orfano e di reietto dalla società, la cui unica consolazione era Pino, chiamato ormai per nome come un amico, l’unico. Diceva poi di avere ormai creato un repertorio tutto suo, ricavato dallo stile di Pino. L’aveva tenuto al telefono più di un’ora farneticando di scarafaggi, cammelli e facce gialle protagonisti dei suoi testi deliranti. Era stato pazientemente a sentirlo, ma si era ripromesso di non far venir fuori la sua follia durante il colloquio con Maurizio, fissato per il giorno successivo.

Intanto si disponeva ad affrontare un altro problema: i musicisti che dovevano accompagnare Pino non potevano essere il solito gruppo. D’altra parte anche gli altri del giro si sarebbero accorti dello scambio. Anche Maurizio aveva sollevato il problema, ma con scarsa convinzione, dato che ormai si era arreso e si era messo nelle sua mani.

La soluzione gli arrivò improvvisa, e dopo sembrò così ovvia che si chiese come mai non ci avesse pensato anche Maurizio: anplagghed o unplugged o come cazzo si diceva in inglese. Insomma due o tre pezzi di chitarra acustica a solo con la voce inconfondibile di Pino.

Tutto sembrava risolto, non restava che l’audizione con Maurizio. A Gaetano ancora non aveva detto niente sul reale andamento della serata e intendeva trovare il sistema di farlo con tatto, sfruttando l’adorazione per Pino che dall’atteggiamento, sia pur bizzarro, di Gaetano traspariva.

IV

 «Proonto?». La voce assonnata di Laura arrivò a Pino come un pugno nello stomaco ad acuire il suo senso di colpa. Sapeva che odiava essere svegliata. «Laura, so’ Pino» sussurrò sperando di non sentirla incazzata come accadeva spesso di recente. «Pino, addo staje?». «Sto allo studio, non va tanto bene…». «Umh…» Laura sapeva metterlo in imbarazzo come nessun altra. «Comunque in vacanza ci andiamo lo stesso, te l’ho promesso» disse cercando un dissenso di cui avrebbe certo approfittato. «Va bene, chiamami domani che ci mettiamo d’accordo, buonanotte». Click. Aveva capito che gli avrebbe dato la solita sòla e, furba, nemmeno la risposta aveva aspettato. «Vabbene» pensò Pino, «vuol dire che la vacanza me la faccio». Spense la luce e chiuse gli occhi.

V

«Buonasera» disse Gaetano un po’ impacciato con la sua chitarra in mano, mentre si sedeva su uno sgabello troppo alto per la sua corporatura. «Anche nel fisico gli somiglia a Pino», pensò distrattamente Maurizio mentre rispondeva con un professionale «Buonasera», lasciando a Gianni il compito di chiudere la porta insonorizzata della saletta prove.

«C’aggia fa’ ?» disse Gaetano, mostrando in fondo qualche differenza di linguaggio e accento con Pino, che non era un principe, ma nemmeno questo rozzo scaricatore di porto. Maurizio disse: «Gianni le ha detto di cosa abbiamo bisogno. Cominciamo pure col repertorio base».

I quaranta minuti che seguirono scioccarono Maurizio: era bravo, si, con la chitarra, ma la voce… era da brividi: sembrava di avere Pino davanti. Lo stesso accento, le stesse inflessioni, gli stessi gesti.

Maurizio era senza parole e Gianni, anche lui colpito nonostante conoscesse lo squilibrato, si fece baldanzoso e gioviale mentre rientravano nello studio. «Ma si, diamoci tutti del tu, in fondo pare proprio che lavoreremo insieme, no?» proruppe rivolto un po’ a Gaetano e un po’ a Maurizio, raccogliendo cenni d’assenso entusiasti dell’uno e distratti dell’altro.

Gaetano cominciò a dire: «E io c’ho pure dell’altra roba, mia, ma però buona, uguale a quella che fa…».

«Sì, sì…» intervenne Gianni tempestivo «poi vediamo, ma per questa serata… ehm… dobbiamo rimanere sul repertorio standard di Pino, capisci… ehm…». Non sapeva ancora come l’avrebbe messa, anche se si era fatto un’idea, e aveva per questo schivato ogni contatto con Maurizio per tutto il pomeriggio.

«Senti Gaetano, io devo parlarti chiaro» disse, mentre Maurizio cominciava a muoversi nervosamente sulla poltrona di pelle «devi sapere che Pino è nella nostra scuderia di cantanti, anzi è proprio il nostro uomo di punta». «Ma io ‘o saccio» interruppe Gaetano con foga «perciò aggia venuto addù vui… io ‘o voglio accanoscere». «Si, forse ci sarà modo anche di fare questo» continuò Gianni, cercando di tenere a bada l’esuberanza di Gaetano «ma adesso noi dobbiamo risolvere un problema a Pino. Tu sei bravo a fare i suoi pezzi e sembri lui quando canti. Bene, ci serve che tu una sera lo sostituisca per tre o quattro pezzi con chitarra e voce…» Gianni si interruppe vedendo le facce che aveva davanti cambiare improvvisamente. Maurizio era sconvolto per l’imbarazzo di star facendo un passo avventato, ma Gaetano sembrava in estasi. Pallido e stravolto, aveva gli occhi sognanti di qualcuno che avesse raggiunto un nobile scopo nella vita: gli avevano chiesto di impersonare il suo idolo, cosa per cui si era esercitato per anni, che aveva anelato da sempre. Non capiva ancora bene perché, ma non gli importava poi molto. Sarebbe stato Pino per una sera, quattro pezzi chitarra e voce, e tanto bastava.

Intanto Maurizio realizzava che in fondo la cosa non era così impossibile; «chitarra e voce» ripeteva mentalmente, e sempre più si convinceva che, si, poteva darsi che in fondo ne uscissero bene.

Gianni ormai non si fermava più. «Sai Pino ha un problema la settimana prossima, e non può proprio andare al PartenopeFestival ’85, ma qualc…» Gaetano saltò dalla sedia urlando «Partenope Festivàl?» era ormai in delirio e Gianni temette che Maurizio mollasse tutto, quindi lo calmò e quando fu sotto controllo gli spiegò quello che doveva fare.

Poi gli disse: «Gaetà, tu ti rendi conto che stà cosa addà essere segretissima? Tu ‘o saje che non si deve far sapere in giro perché se no Pino fa na figura ‘e mmerda?». «Sì, sì, nun ‘o dico a nisciuno, che so’ scemo?» e l’involontaria ironia della domanda fece sorridere Gianni e Maurizio malgrado la situazione. «Noi ti paghiamo bene, e poi facciamo in modo che Pino direttamente ti ringrazi…». «Si, siiiii» Gaetano sembrava un ragazzino e questo preoccupò Maurizio sulla sua capacità di tenere il segreto.

Ma ormai era fatta, e poi a chi poteva raccontarlo? Non aveva amici, ne parenti. L’unica cosa che faceva era suonare i pezzi di Pino.

Poi realizzò cosa Gianni avesse detto: «ti facciamo ringraziare da Pino»; e come pensava di farlo?

Si era detto che Pino non avrebbe dovuto saperne mai niente.

Gaetano andò via di corsa per le scale dell’antico palazzo su a Mergellina dove Maurizio aveva casa e studio, lasciando Gianni entusiasta e Maurizio inquieto.

«Non me lo hai chiesto ancora» disse Gianni con un sorriso. La sua voce fece trasalire Maurizio che rispose con un’espressione interrogativa. «Non mi hai chiesto ancora come facciamo a dirlo a Pino e a fargli ringraziare Gaetano per la collaborazione. Tu hai paura!».

«Ma che dici?» Maurizio si irritava quando la faccia ‘malavitosa’ di Gianni veniva fuori, ma forse era proprio perché, senza mai confessarselo, ne aveva orrore. «Immagino che tu abbia pensato a tutto? O no?».

Gianni prese la giacca e si avviò alla porta. «O NO?» ripeté più forte Maurizio, ormai in preda al panico. Gianni si girò prima di uscire e, senza una parola, disse tutto.

Maurizio rimase a pensare, senza alcuna convinzione, che poteva ancora dire che era stato tutto uno scherzo, che non se ne faceva niente, e che… ma la faccia di Gianni mentre usciva aveva una sola spiegazione. E Maurizio non era terrorizzato da quello che pensava Gianni voleva fare, ma dal fatto che si sentiva d’accordo con lui che era l’unica via d’uscita.

VI

Pino chiamò Laura troppo presto e lei si incazzò di nuovo. «Perché non puoi chiamarmi dopo l’alba?» urlò nella cornetta. «Ma sono le dieci!» rispose quasi scusandosi. «Uhm…». «E vafancul pur tu» pensò Pino senza parlare.

Lei sapeva che stava cercando di farle cambiare idea e che voleva restare a lavorare e per ‘schiattiglio’ non gli dava la possibilità di sganciarsi. Se voleva tradirla ancora col lavoro doveva farlo come al solito, ignobilmente, non presentandosi all’appuntamento. Lei non l’avrebbe chiamato per qualche giorno e poi si sarebbero cercati ancora. La solita routine. Si accordarono per partire alle undici del giorno dopo, sabato. Pino si fece una doccia e andò allo studio.

Era solo, gli altri non erano stati nemmeno chiamati. Voleva risentire i master preparati nelle ultime settimane, e stava per staccare il telefono quando squillò. Nessuno oltre Laura, Maurizio e i suoi musicisti aveva quel numero, così rispose. «Pronto…». «Ué, Pino, so Gianni, staje lloco?». Faceva sempre domande intelligenti, Gianni. «Si, sto sentendo i master». «Allora mo’ vengo e ti do una mano». «Ma una mano a fa’ che? A mettere i nastri?» pensò Pino irritato da quell’intrusione. «Non ti preoccupare, me ne sto per andare» disse invece, sapendo che comunque lo studio di registrazione era pagato anche da Gianni, e pareva brutto mandare pure lui affanculo. «No, senti, aspettami che ti devo parlare, ci metto dieci minuti a venire» insistette Gianni. Pino credeva che Gianni avrebbe ritirato fuori la storia del PartenopeFestival e si incazzò «Gianni, senti, se è per quella cosa di domani sera, io…». «No, no, no. Non ti preoccupare, avimma risolto tutto quanto con gli organizzatori, non c’è problema, ma ti devo vedere un momento solo dieci minuti». Pino, sollevato dal non dover riprendere quel discorso rispose «Vabbè, t’aspetto». E si rimise le cuffie.

VII

Maurizio non aveva chiuso occhio. Si alzò dal letto a mezzogiorno con un mal di testa terribile. Sapeva che poteva ancora fermare tutto. Aveva convinto l’organizzazione del PartenopeFestival a non pubblicizzare la presenza di Pino sui manifesti per fare ‘na cosa a sorpresa. Quindi in fondo c’era solo da impapocchiare una palla per Gaetano e trovare una scusa dell’ultimo momento per don Salvatore, e alla fine se ne poteva uscire senza fare danni. Mentre si costruiva ste belle fantasie, si accorse che ci teneva di più a continuare a fare il dipendente di don Salvatore che a morire, o peggio che a restare a chiedere la carità. Capì che era sempre stato un criminale, e che non faceva differenza se si stava zitto e lasciava che tutto andasse come doveva andare. In fondo lui non aveva fatto niente. E niente voleva fare. Così non fece niente.

VIII

«Pronto, Rafè? So Giuvann… Me servesse na man a fa nu servizio… Si nu servizio comme chill ‘e l’anno passato… Si na cosa c’adda scomparì pe sempe… è pe stasera… si… mo te vengo a piglà e jammo… vabbuò… ciao».

La luce verde lampeggiava rapida. Nello studio spesso nessuno era in grado di sentire il citofono esterno, se non c’era qualcuno oltre i vetri e le pareti insonorizzate, quindi c’era una luce verde che segnalava che qualcuno stava bussando. Pino si alzò senza voglia e andò ad aprire. «Ciao, Gianni» disse quando aprì la porta, notando sulla sua faccia quel mezzo sorriso per cui l’aveva sempre avuto in antipatia. Solo un attimo dopo notò che non era solo. «Pino ti presento Raffaele, un collega…». «Piacere». «Piacere». Mentre Pino pensava: «E mo chist chi cazz è?» vide Gianni chiudere la porta e sentì che era finita.

IX

Laura si era svegliata alle nove con grande sacrificio e aveva passato la mattina a correre per casa a fare valige. Era sicura che Pino non sarebbe venuto, ma non voleva che, nel caso si sbagliasse, lui potesse darle la colpa del ritardo. Alle undici stava vicino al telefono aspettando che lui chiamasse per dirle che non se ne faceva niente, ma sapeva che se l’avesse ‘solata’ nemmeno l’avrebbe chiamata.

A mezzogiorno era delusa.

All’una era furiosa e stava disfando le valige.

X

«E adesso, signori e signore, la sorpresa che vi avevamo promesso». Don Salvatore aveva voluto essere lui stesso a presentarlo, nonostante la sua figura, tozza e malvestita, facesse pensare più a uno scaldabagno arrugginito che a un presentatore di spettacoli di paese. «Un cantanto che non servono presentazione, lo posso dire… il mio amico Pinoooo».

Applausi.

«Sono un cantante di blus…».

XI

La domenica mattina Gianni era arrivato nello studio di Maurizio, con il suo solito mezzo sorriso e aveva salutato allegramente. «Che è sta faccia da mortorio? È andata, no?».

«Non voglio sapere niente!» urlò Maurizio agghiacciato dall’umorismo fuori luogo di Gianni.

«Già il signor non c’entro io, ma tu lo sai quello che abbiamo fatto. Pino è partito, noi continuiamo ad avere i suoi diritti, ieri sera don Salvatore era raggiante e ci ha messo i conti a posto, e tra poco arriva il cretino, gli diamo i suoi soldi e lo mandiamo a casa. Che vuoi di più?».

Maurizio aveva la voce arrochita «Pino…».

«Pino è partiiitooo,» rispose divertito Gianni «non hai sentito che se ne andava in vacanza? Beh, ci starà per un bel po’, chi lo trova più? e noi ce ne vediamo bene, ah, aha, ah…».

XII

Gaetano aveva passato la notte a ripensare a quella folla che lo acclamava e lo chiamava Pino, che cantava le canzoni insieme a lui. Era una sensazione indescrivibile, soprattutto per i suoi limitati mezzi espressivi, ma lui continuava a volare. Si alzò troppo presto e uscì per andare da Maurizio e Gianni con un’ora di anticipo.

Arrivato allo studio non voleva salire, ma era impellente il bisogno di approvazione dei suoi amici, così si avviò per le scale. La porta della sala di attesa era aperta.

Si avvicinò timidamente allo studio, con la mano raccolta e le nocche in fuori nell’atto di bussare quando sentì Gianni dire: «Che è sta faccia da mortorio? È andata, no?».

Si fermò, temendo di interrompere qualche importante riunione, ma non riuscì a trattenersi dall’origliare. Non capiva bene, «Pino partito…».

Poi d’improvviso…

Bussò alla porta.

«Avanti…» dissero insieme spaventati i due soci.

«Buongiooornoooo» disse Gaetano, guardandoli con un sorriso che li fece gelare. Aveva un lampo di lucida follia negli occhi. «Perché mi guardate accussì? Mica vi faccio niente…».

Maurizio e Gianni capirono che quello non era più il cretino dei giorni precedenti, e ne ebbero terrore.

«Gaetano i tuoi soldi sono qua…» disse Gianni sperando con questo di riportare tutto alla normalità. «Nun te preoccupà dei soldi» disse Gaetano «c’è tempo, dobbiamo ancora lavorare tanto insieme…».

«Ma… che dici, l’accordo era solo per ieri sera…» disse Maurizio poco convinto.

«Ah, si? Sapite io aggia capito tutte cose, e vui mo nun putite fa cchiù niente. M’avità fa fa a me! Da oggi in poi io faccio le MIE canzoni! AH!».

Gianni e Maurizio si guardarono sbalorditi e pensarono all’unisono «Stu strunz c’ha futtut!».

FINE

 

«Era solo questo?» disse Bea alla fine.

Michele capì perché era stato riluttante a farglielo leggere. Bea sembrava avere la fantasia di un pesce rosso, e questo non contribuiva a rendergliela simpatica.

«Sì» disse «E se ora sei soddisfatta, possiamo tornare al nostro lavoro».

Percependo il cambio di registro, Bea si alzò e si diresse verso il corridoio. Quando si voltò vide che Michele la ignorava sfacciatamente.

«Comunque sei davvero bravo» disse «è stata una piacevole lettura».

Alzò gli occhi ma lei era già uscita, lasciandolo a domandarsi come aveva fatto a capire che era lui l’autore di quel racconto privo di firma.