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Il cantante di blus - Capitolo 10

X.

Dopo ventisette anni di quel lavoro, un corridoio buio e deserto non avrebbe più dovuto metterlo a disagio. Eppure non poteva fare a meno di sentire echeggiare rumori sinistri e strani scricchiolii, che si coagulavano in sprazzi di fantasia prossimi all’allucinazione quando, alle 23.30 di ogni giorno lavorativo, faceva il giro di ispezione degli uffici prima di chiudere la Teorema.

A cinquantanove anni una mente superstiziosa può lavorare parecchio sull’irrazionale, e Giovanni Morrone, custode tuttofare della Teorema, era un pugliese con la superstizione nel DNA.

Un tempo, quando il suo fisico lo faceva assomigliare più a Tex Willer che a Mister Magoo, il suo incedere era più sicuro, con la fedele Beretta 92F al fianco. Adesso era stanco di quel lavoro, e quel percorso diventava sempre più spossante.

Per questo, quando poteva, cercava di farlo anche mezz’ora o più prima del previsto, come stava facendo quella sera.

Quando vide la luce sotto la porta di Michele Manara pensò che era un po’ tardi perché uno come lui stesse ancora lavorando. Era una luce strana, però. Calda e non bianca come quella dei neon degli uffici, si muoveva come fosse una torcia accesa.

L’adrenalina cominciò a scorrere copiosa e il vecchio istinto di segugio gli mise in allerta tutti i sensi. Estrasse a fatica l’arma, con un movimento quasi dimenticato, e si avvicinò alla porta senza far rumore. Sapeva che avrebbe dovuto chiamare la polizia ma, con un rigurgito d’orgoglio, decise che avrebbe chiuso la carriera arrestando un ladro: un congedo con tutti gli onori e magari anche un premio della direzione.

Dentro sentì dei rumori e qualcuno sussurrò qualcosa sul fatto che bisognava muoversi perché il vecchio guardiano rincoglionito sarebbe passato di lì a venti minuti. Erano almeno in due. Tolse la sicura alla pistola.

Mentre apriva la porta, si chiese se non stesse facendo una cazzata enorme. Tenendo puntata la sua Beretta urlò: «Fermo e mettiti le mani sopra la testa, muoviti!».

Il tizio che armeggiava coi cassetti dietro la scrivania alzò lo sguardo sopra i suoi occhialini tondi. Poi guardò allarmato, nascosto dietro la porta aperta da Morrone, il suo compagno estrarre il tonfa, un regalo che lui stesso gli aveva fatto di ritorno da un viaggio in Giappone. Era affezionato a quella specie di sfollagente, dichiarato arma bianca, ma con cui spesso aveva fatto grandi danni.

Morrone capì l’errore con un istante di ritardo e, mentre si girava, sentì il primo stud, assieme al «Nooo!» urlato dal tizio con gli occhialini tondi.

Il secondo colpo gli fu sferrato mentre cadeva ma non riuscì a capire dove l’aveva raggiunto. Ebbe appena il tempo per meravigliarsi di non provare alcun dolore e poi tutto svanì.

«Che cazz aje cumbinat? Ma si nu’ strunz!» sbottò occhialini tondi. «Guarda cca’ che casino! E mo’ chi c’o dice a ‘O Zicchinett»

«Ma tu che vuoi da me? nun hai visto ca’ teneva 'a pistola? C’aveva fa’?» rispose ancora scosso il compagno.

«Iammuncenne, Facimm ambress!» urlò occhialini tondi, mentre si affrettava verso l’uscita con in mano una cartellina blu elettrico e il pen-drive da due gigabyte che il suo compagno aveva estratto di fretta dal computer di Michele Manara.