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Il cantante di blus - Capitolo 23

XXIII.

«Stammi a sentire. Tu te lo ricordi che tengo un figlio in America, Antonio?»

«Sì, come no!»

Don Vittorio era stranamente emozionato. ‘O Zicchinett non lo aveva mai visto così. Era arrivato da dieci minuti, aveva portato altre notizie e le fotografie di Michele Manara scattate il giorno prima. Ma don Vittorio le aveva sfogliate appena. Poi si era seduto nella poltrona da lettura e dopo un lungo silenzio aveva cominciato a raccontare.

«Quando mi figlio teneva otto anni, io gli ho regalato una chitarra. Lui era bravo e ha cominciato a suonare proprio bene. Anni dopo si è messo con un gruppo, e ha conosciuto un certo Giuseppe. Sono diventati amici e hanno mandato provini in giro. Tu lo sai che io faccio questo mestiere da sempre, e già allora tenevo contatti buoni. Li ho avviati un poco, li ho fatti aiutare, insomma. Stavano sempre nel garage di casa mia, a suonare e a fare casino.

«Però Giuseppe era più bravo. Parecchio più bravo, veramente un talento raro. E allora hanno cominciato a chiederlo come solista, qualche discografico l’ha notato, e Giuseppe ha avuto successo. Mio figlio Antonio non ci rimaneva male. Lo sapeva che Giuseppe era meglio di lui. A me invece mi bruciava un poco. Ero più giovane e non vedere i ragazzi andare in alto insieme mi faceva incazzare. Poi Giuseppe ha cominciato a fare i dischi e nessuno lo ha fermato più.

«Dopo qualche anno, Giuseppe ormai era famoso e mio figlio Antonio era diventato solo un suo ammiratore, come si dice… fan, no?

«Continuava a suonare a livello dilettantistico con amici e faceva spesso i pezzi di Giuseppe. Mi impressionava vedere come li faceva uguali. Guarda che erano una cosa sola!

«Intanto Giuseppe, dopo tutto quello che avevo fatto per lui, da me non si faceva quasi vedere più.

«Con Antonio si vedevano sempre alle prove, ai concerti, insomma erano amici. Ma a me mi dava sempre l’impressione di uno che non teneva il tempo per la gente, troppo impegnato.

«Forse ero io che non ci capivo niente.

«Il giorno che Antonio fece trenta anni, invitò pure a Giuseppe, che non venne. A tarda sera lo chiamai, e per trovarlo ci misi due ore. Mi ero pure bevuto un sacco di sciampagna, e insomma gli dissi che era un ingrato, nu’ strunz e tutto quello che ti immagini.

«Lui venne a casa, disse che aveva avuto una riunione alla casa discografica, ma secondo me non era vero. Dopo che era stato un po’ con gli ospiti, e tutti stavano attorno a lui e si scordavano di Antonio che era il festeggiato, lo feci chiamare, che io non ero proprio sceso a vederlo.

«Solo vederlo mi fece ancora di più incazzare e, vecchio e buono, gli stavo mettendo le mani addosso.

«Arrivò Antonio che, per non farmi venire una cosa, gli chiese di andarsene e lo accompagnò alla porta. Barcollavano tutti e due, che avevano bevuto peggio di me».

‘O Zicchinett aveva ascoltato paziente, senza ancora aver chiaro dove don Vittorio volesse andare a parare. Ma in quell’istante la domanda gli affiorò alla bocca e, prima che potesse evitarlo, disse «ma Giuseppe è…?»

«Zicchinè, statt zitt! Vuoi sentire come va a finire o no?».

 ‘O Zicchinett tacque di colpo senza dar risposta alla domanda, né all’occhiata torva di don Vittorio, che in realtà era contento di parlare di quella storia con qualcuno dopo tanti anni.

«Insomma Giuseppe si mise in macchina e uscì dal viale. Faceva un casino con le marce e andava a zig zag. Forse lo dovevamo fermare.

«Invece se ne andò, ma non fece nemmeno duecento metri. Nella curva dietro a casa mia si accappottò e successe un casino. Insomma la macchina si era schiattata tutta quanta, e Giuseppe era andato».

‘O Zicchinett cominciò ad agitarsi sulla sedia. Capiva che stava per essere messo a parte di un segreto la cui portata era superiore a tutte le altre cose compromettenti che sapeva di don Vittorio. Non parlò, ma a impedirglielo, probabilmente, fu più l’emozione che provava, che il timore di fare un altro intervento inopportuno.

«Insomma, chiamai qualche amico mio e sistemammo la cosa. Scomparì tutto e nessuno doveva mai sapere niente.

«Però c’era il problema di Giuseppe. Non so se mi venne in mente a me o a Antonio. Comunque pigliammo i documenti e tutto, e Antonio andò dai carabinieri a denunciare che si erano rubati la macchina. Firmò la denuncia col nome di Giuseppe, e poi andò a casa sua. Sua di Giuseppe, Zicchine’.

«Da allora Antonio sta ‘in America’ a studiare, ma invece sta qua. E fa il cantante. Lo sai come si chiama adesso, Zicchiné?»

‘O Zicchinett ormai aveva capito tutto, e aveva un milione di domande su come erano riusciti a farlo «Ma come avete fatto a fottere…»

«Qualche problema c’è stato, nel tempo. Ma, superati i primi scogli, tutto si è messo a posto piano piano».

«’A faccia do’ cazz!» disse ‘O Zicchinett sconvolto.

Ma era un uomo pratico e intelligente e, nonostante lo shock di quella notizia, si soffermò subito a riflettere su come gli eventi di vent’anni prima si inquadrassero nella realtà attuale.

«Secondo voi ‘sto Manara sa qualcosa?»

«Se sapeva qualcosa, era cretino a scrivere un racconto. Però i cretini sono assai, Zicchinè, e tu lo sai bene!»

‘O Zicchinett finse di non cogliere il riferimento alla sua défaillance, e passò alle cose pratiche «don Vittò, avete ragione: qua la cosa è seria. Ci dobbiamo occupare di questo Manara!»

«Non fare il deficiente. Per mo’ non ha fatto ancora niente. Non è che ‘sta notizia l’ha mandata ai giornali. Per quello che sappiamo noi, la cosa si ammoscia e tutto finisce a tarallucci e vino».

«E se…?»

«Se, un cazzo! Perché ti ho mandato a indagare discretamente? Doveva essere una cosa pulita. Mo lo capisci il guaio che hai fatto?»

«Don Vittò, fatemi fare a me, e ‘sto Manara non vi darà più fastidio».

«Tu devi fare quello che ti dico io! Chiaro?»

«Ma…»

«Oé? Che so’ ‘sti ma? già abbiamo fatto un casino, non ne facciamo un altro. Adesso ti stai fermo e stiamo a guardare».

‘O Zicchinett tacque, anche se non condivideva l’atteggiamento di don Vittorio. Secondo lui non si doveva dare il tempo alla cosa di scoppiare.

Anche Don Vittorio rimase in silenzio a guardare i suoi preziosi volumi, riflettendo su come potevano uscirne stavolta.

Era sempre stato ottimista e fiducioso della sua capacità di cavarsi dai più ingarbugliati impicci, ma stavolta proprio non riusciva a vedere una soluzione.

Alcuni rumori dall’esterno lo risvegliarono dalle sue elucubrazioni.

«Questo è Antonio. Aspetta qua tu!» abbaiò a ‘O Zicchinett.

Andò all’ingresso principale e aprì la porta di persona come aveva fatto con ‘O Zicchinett. Alla servitù veniva concesso un permesso speciale ogni volta che Don Vittorio doveva trattare una questione delicata o incontrarsi con Antonio.

«Ciao»

«Ciao, papà»

«Entra. Stai solo?»

«Sì, Giovanni è andato nel garage»

Giovanni era l’autista di Don Vittorio, ma non era da considerarsi servitù. Era un fedele luogotenente ed era al corrente del rapporto che lo legava al cantante. Ma avrebbe dato la vita piuttosto che parlarne. E forse sarebbe stato proprio quello il prezzo, se mai lo avesse fatto.

«Allora che è successo?»

«Vieni di là. Ci sta ‘O Zicchinett».

«Ma…»

«Gli ho raccontato tutto, non ti preoccupare. È persona di fiducia. Mi ha portato notizie».

Antonio entrò nella sala dei libri e ‘O Zicchinett si alzò per stringergli la mano.

«Ehm… buongiorno…»

«Ciao Zicchinè, sono Antonio Cardamone. Mio padre mi ha tanto parlato di te» disse sorridendo «Sei uno bravo, dice. È vero?»

«No… cioè, sì… insomma… è proprio ‘na cosa strana… Scusate, io…» l’imbarazzo era palpabile ma Don Vittorio vi mise fine rapidamente.

«Prendi le fotografie, io intanto spiego a Antonio perché l’ho fatto venire».

Un’ora dopo esaminavano le fotografie di Michele che entrava nella Teorema la mattina precedente, quelle scattate mentre era a pranzo con i colleghi, all’uscita e alcune altre mentre rincasava.

Antonio si conteneva a stento. Era furioso per quella ‘piccola effrazione con un ferito’ come l’aveva definita don Vittorio. Di certo aveva drasticamente minimizzato, come sempre faceva quando gli parlava di azioni che non avrebbe approvato.

Ma non voleva discuterne in presenza de ‘O Zicchinett, per quanto coinvolto fosse. Sapeva che non sarebbe servito e che comunque don Vittorio si sarebbe irritato a essere contraddetto davanti ad estranei.

«Insomma non sappiamo questo che sa, e che vuole farsene di quello che sa» disse ‘O Zicchinett «non ci sta niente da fare, si deve…»

«Zicchiné!» tuonò Don Vittorio «io e te abbiamo già parlato. Non mi voglio ripetere. Vai a aspettarmi di là»

«Che stava dicendo?» domandò Antonio al padre quando ‘O Zicchinett fu uscito.

«Niente, è una testa calda, ma nu’ buon guaglione. Lascia stare, ci bado io. Intanto io volevo farti sapere la situazione. Mo’ stiamo ad aspettare che fa ‘sto Michele visto il casino che è successo nel suo ufficio. Forse la cosa si sgonfia da sola»

«Ma tu stai scherzando? Quello è un criminale e, se lo lasci fare, fa una strage solo per compiacerti. Se non interveniva magari oggi non staremmo parlando di ‘sta cosa. Gesù… Stavolta è finita»

«Non dire così, rimedio a tutto io. Non mi aspettavo che ‘O Zicchinett fallisse, ma c’è sempre un modo per venirne fuori. Se questo vuole soldi, non ci sono problemi».

«Senti, tu non devi fare più niente. Se viene fuori qualcosa, l’affrontiamo senza che nessuno si faccia male. Mi devi dare la tua parola, adesso».

Quella antica formula, troppo spesso abusata, era l’unica espressione di antichi rituali che ancora don Vittorio conservava intatta nella sua sacralità. Gli fu difficile farlo, ma costretto dal piglio deciso di Antonio disse «E va bene, ti do la mia parola».

Da dietro la porta ‘O Zicchinett non potè fare a meno di ascoltare tutta la conversazione, sapendo che la servitù non c’era e nessuno avrebbe potuto sorprenderlo a origliare.

Solo ora aveva capito la portata della cazzata che aveva fatto, e si rendeva conto che doveva recuperare la stima di don Vittorio a tutti i costi. Avrebbe fatto qualcosa.